L’utopia di un Paese, innovare e conservare. Il luogo simbolo è la caserma dei carabinieri
Innovare e conservare. Conservare e innovare.
Quanti lo ripetono come un mantra a garanzia delle proprie strategie? Poi scopri che barano. O innovano buttando a mare tutto il buono che c’era, che sia un’azienda, un’istituzione o un partito. O innovano ma conservano il peggio, condannando al disastro ogni novità. Oppure innovano artificialmente (magari mettendo ai vertici una donna o un giovane inoffensivi) perché tutto resti come prima.
La casistica è varia, insomma. Ma dopo Natale sono entrato in un luogo in cui i due verbi convivono davvero. Quale luogo, dite? Una caserma dei carabinieri. E prima di sospettarmi di partigianeria dinastica ascoltate come è andata.
Devo fare una denuncia per una cosa un po’ complicata, che chiama in causa anche una testimone che sulla strada mi ha aiutato. La caserma sta quasi nel centro di Milano. È la prima volta che ci entro, ma ci sono affezionato. Qui lavorava un mio laureato, maresciallo figlio di maresciallo, al servizio di mio padre all’epoca della lotta al terrorismo, e a cui, in onore del “nostro generale”, un ufficiale aveva dato come nome di battaglia “Nandino”. Come non seguirlo con affetto, soprattutto quando fece una tesi di laurea sul ruolo dei Carabinieri contro la mafia?
Ma questo spiega solo il mio atteggiamento emotivo. Dentro trovo subito la tradizione: un bellissimo presepe a due piani, statuine in terracotta e non in plastica, una piccola cascata con l’acqua vera. Mi informo: “la fa ogni anno un appuntato che ci tiene molto”.
Poi vengo ricevuto per la denuncia. C’è un luogotenente che per modi, intuito, concretezza, mi ricorda il maresciallo Rocca di Gigi Proietti. Conservazione e anche innovazione. Ricorda i tempi (che un po’ ha vissuto) delle macchine da scrivere, che mortificavano la fantasia, con quella impossibilità di correggere gli errori e condannavano alla ripetizione di frasi fatte. Ricorda anche, per sentito dire dai colleghi in pensione, quando per fare più copie si usava la carta carbone. Poi mi sottopone la denuncia.
Altro che i famosi carabinieri di cui “uno scrive e l’altro legge”. La prosa è perfetta, meglio di certe mostre; senza scivoloni tipo “si portava immediatamente sul posto” o “il suddetto passante”. Al momento di raccontare il ruolo della testimone, essendo del tutto ininfluente nominarla data la dinamica dei fatti, riprende solo il mio racconto, con il nome proprio della signora, che è del mio quartiere, evitando di mettere nome e cognome, o “residente in via..”.
Lo apprezzo tantissimo pensando a quante segnalazioni inutili o addirittura dannose si potrebbero evitare. È la migliore interpretazione del principio della privacy: innovazione pura, altro che tacere “per ragioni di privacy” i nomi dei membri di un consiglio di amministrazione…
Mentre siedo nel suo ufficio entra il tenente. Giovane, motivatissimo, mi parla anche del ruolo della società civile nella difesa della legalità. A un certo punto c’è bisogno dell’intervento di un carabiniere per una prestazione più squisitamente informatica. Lo sento entrare, mi volto e vedo un carabiniere di colore. E ho un soprassalto di sorpresa e di compiacimento.
Ecco ancora l’innovazione. Naturale, non gridata, che sta dentro la storia del Paese. Penso subito a come mi godrei la scena di quel carabiniere in borghese che entra in un negozio e viene appellato con fare screanzato da qualcuno subito prima di tirar fuori il tesserino: “Carabinieri”.
È la fotografia di un organismo sociale che cambia. Conservazione e innovazione. L’utopia di ogni istituzione che non voglia imbalsamarsi e nemmeno perdere il suo prestigio e la sua immagine.
È successo così nella scuola? È successo così in parlamento? A occhio e croce no. Dev’esserci di mezzo la storia. Che conta sempre. Nel male ma anche nel bene. Per fortuna.
* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 02/01/2023
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