Riforma dell’ergastolo ostativo: nessun cedimento su lotta alle mafie e alla corruzione
I principi dello stato di diritto e della costituzione siano considerati dal legislatore.
La riforma della disciplina dell’ergastolo ostativo in discussione in queste ore nell’ambito del cosiddetto “Decreto Rave” pone il legislatore di fronte a problemi di grande rilevanza e complessità: la necessità di garantire la sicurezza collettiva, il contrasto a forme gravissime di manifestazioni criminali, il risarcimento ai familiari delle vittime, il rispetto dei diritti fondamentali che lo Stato è tenuto a garantire a tutti, anche ai condannati alla pena perpetua. Tra questi diritti fondamentali vi è quello ad un riesame del giudice a sperare in un possibile – e secondo il nostro sistema normativo mai scontato – ritorno in società.
La richiesta di riformare quanto previsto dall’art. 4-bis dell’Ordinamento penitenziario – che si occupa dell’eventuale accesso a misure esterne – è stata sollecita nel 2019 da due sentenze: una della Corte europea dei diritti dell’uomo e una dalla Corte costituzionale. Quest’ultima ha chiesto al Parlamento italiano di legiferare in merito, specificando che è incompatibile con i principi costituzionali la mancata concessione di premi per i detenuti ostativi – circa 1.200 persone – che non rendano dichiarazioni agli inquirenti. Si può presumere che chi non collabori con la giustizia resti legato al mondo criminale di appartenenza, nonostante lunghe carcerazioni. Ma non si può impedirgli di dimostrare il contrario davanti ad un giudice.
È fondamentale che la riforma del cosiddetto “ergastolo ostativo” si fondi sui principi dello Stato di diritto, che tenga conto delle indicazioni delle Corti – europea e costituzionale italiana – che miri a trovare un ragionevole equilibrio tra le diverse esigenze esposte in precedenza.
Non si può dare l’idea di un cedimento nella lotta alle mafie e alla corruzione né tantomeno approvare regole che potrebbero risultare nella pratica quotidiana di difficile e farraginosa applicazione e non superare il vaglio di costituzionalità.
La legge dello Stato deve sanzionare con una pena, giusta e certa, e in tempi rapidi chi si è reso responsabile di gravi reati, deve riconoscere il dolore delle vittime, risarcendole, supportandole, dando loro un legittimo ruolo nel processo, prevedendo forme riparatorie. Ma al contempo deve predisporre percorsi di recupero sociale delle persone detenute, investendovi adeguate risorse – umane e finanziarie – favorendo il non semplice cammino che mira, nel rispetto della Costituzione, ad un graduale reinserimento nella società di chi ha sbagliato.
Una concreta azione finalizzata a debellare il fenomeno mafioso e corruttivo – che costituiscono una seria e attuale minaccia alla nostra democrazia, alla nostra economia e alla nostra sicurezza – deve tenere insieme, contemporaneamente, una dimensione di repressione e di prevenzione. La dimostrazione del venire meno di un rapporto tra le persone condannate e le organizzazioni criminali, dopo una lunga detenzione, anche al fine dell’ottenimento di specifici benefici – tema di attualità nel dibattito parlamentare e pubblico – deve poter essere certificata grazie ad un lavoro interdisciplinare, chiaramente definito nei tempi, nei modi e negli strumenti, svolto dai giudici in collaborazione con figure professionali debitamente formate – psicologi, educatori, assistenti sociali – e personale di polizia. Una società che recupera e include è una società più sicura e giusta.
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