L’Iran e non solo. L’agonia di tutte le sinistre del mondo senza guizzi di cuore e di mente
Devo confessarlo. Leggendo i giornali, ascoltando testimonianze, viaggiando, sento come una umana vergogna per i piani su cui si svolgono le storie del mondo. Abissalmente distanti ma impunemente comunicanti.
Delle storie italiane sappiamo: centinaia di migliaia di esseri umani che lavorano per tre, quattro, cinque euro l’ora. Con circa mille morti sul lavoro nel 2021 (dipende dalle fonti), che non resteranno sul conto di nessuno. Al contrario milioni di persone che contano su occupazioni civili e civilmente remunerate. Al cui interno tuttavia navigano minoranze sicure della propria condizione, qualunque sia la loro onestà o il servizio garantito ai loro utenti, pazienti, clienti. Pronte a proclamare che con quel che prendono non dovrebbero nemmeno timbrare il cartellino. Disperazioni e strafottenze che convivono e offendono. Dovute al caso, più spesso a ignavia, o a poteri privati fattisi pubblici.
Il senso dell’ingiustizia schizza poi verso l’alto passando dall’Italia al pianeta. Allo schermo dei mondiali, ad esempio: alla metafora del Qatar che festeggia se stesso, con migliaia di morti “in nero” per realizzare l’evento. Spia, simbolo di uno sfruttamento feroce, globale come il calcio: nelle miniere, nell’edilizia, nei campi, negli opifici che si nutrono di bambini.
Ma poi ci sono i diritti civili.
Sento brividi di rabbia e commozione (e ammirazione) per i giovani che si battono in Iran o in Cina o in Russia per quei diritti che la storia ha sancito per sempre, piaccia o meno ai poteri politici o religiosi dell’orbe terracqueo. Altro che rispettare le “diversità culturali”, come qualche Candide qui da noi ammonisce; quei giovani non vogliono affatto essere “diversi”, vogliono vivere.
Penso all’esistenza di una polizia morale a caccia di donne disobbedienti, alla repressione di ogni pulsione di vita e di libertà, ai ciuffi di capelli che causano tortura e morte e mi ritrovo incredulo a discutere in casa nostra dei meriti egualitari degli asterischi, delle vocali imperialiste, ultima spiaggia di una psiche impazzita.
Né c’è bisogno di pensare all’Iran per vivere questo imbarazzo in un paese come il nostro in cui si contano notoriamente ormai più di cento femminicidi all’anno, con numeri in ascesa. Che tutti conosciamo, senza però che si denunci la distanza smisurata -poiché sta qui il vero scandalo in cui si contorce il mondo – tra il dibattito giuridico-sociale e l’osceno quotidiano.
Più le istituzioni politiche, specie quelle internazionali, ormai sfiatate e maledettamente simili a maschere esangui, enunciano principi e diritti, del fanciullo, della donna, del lavoratore, dell’ambiente, più – da istituzioni e imprese e singoli – si alzano le offese verso quegli stessi principi e diritti. “Rights” e “derechos” a manetta in ogni sede ufficiale; e vere e proprie ecatombi dei loro titolari nella realtà effettiva. Già, si potrebbe davvero spaziare nel panorama dei derechos. Per arrivare alle comunità indigene sterminate nel silenzio degli Stati. O alle ragazzine commerciate sessualmente come schiave dai loro padroni in America latina per essere poi eliminate senza problemi al primo arrivo del ciclo.
La domanda insostenibile riguarda dunque il mondo che si è velocemente costruito in questo intreccio mai indagato a fondo di globalizzazione, capitalismo senza limiti, neutralità morale. Riguarda la morte della politica, piegata nei suoi fondamenti e valori dal gioco sempre più intricato e onnivoro delle convenienze economiche internazionali. Riguarda la storia agonizzante delle sinistre; consunte, dilaniate, schiacciate su modelli di azione senza guizzi di cuore e di mente.
Quando ero ragazzo sentivo dire che i partiti e la politica servivano esattamente a questo. A dare cittadinanza ai deboli. A frenare gli istinti famelici o di sopraffazione dei potenti. Ora non più. È questa la radice dell’umana vergogna.
* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 12/12/2022
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