Qui Costa Rica. Il paradiso della “Pura vida” chiede all’Italia come difendersi dai narcos
“Pura vida”. Così si dice in Costa Rica. Lo scrivono sulle spiagge, lo scrivono sui muri, ne hanno fatto uno dei brand più suggestivi al mondo. Per dire tutto e a volte niente.
Sono capitato in questo paese dalla fama felice mentre la vita raccontava un miscuglio di sentimenti nuovi. Il primo esaltante. Capace di contagiare qualunque visitatore. La pazza speranza di passare il turno dei mondiali dopo avere battuto il Giappone.
Le magliette rosse e blu, combinate in cento fogge, sparse come fiume in piena per le strade nei giorni precedenti la partita decisiva con la Germania. Un’euforia ubiqua, spontanea, che accompagnava i saluti e i benvenuto. Uomini anziani e ragazze vaporose. Bimbetti perfino. San José, non particolarmente bella, si colorava di pura vida mettendosi così al livello dei paesaggi e della fauna che la circondano. “Vamos ticos” era il reciproco incitamento collettivo anche all’inizio dei convegni.
Giovedì scorso ci hanno creduto per una manciata di minuti, il tempo di pareggiare e addirittura di andare in vantaggio con la Germania. Il passaparola frenetico sull’imminente occupazione rossa delle strade e magari sui giorni di festa nazionale, in perfetta coincidenza con quella, ufficiale però, che celebra l’abolizione delle Forze armate nel paese. Poi la sconfitta.
Il nuovo miscuglio di sentimenti ha lasciato così il campo alla sua componente meno positiva, che timidamente ma diffusamente va emergendo nell’opinione pubblica della capitale.
Il sentimento che mi ha portato qui per la “Diplomazia della legalità” lanciata tra Italia e Costa Rica dal nostro ambasciatore Alberto Colella. Ossia la sensazione, il timore crescente che la sorte capitata agli altri paesi del Centroamerica tocchi tra non molto anche al paradiso senza violenza e senza stragi, dei tucani e delle spiagge dorate.
Già, i narcos, l’incubo che pesa sul continente meraviglioso. E la corruzione a far loro da zelante apripista. Per questo vogliono imparare come difendersi, che strategie adottare. Per questo l’iniziativa dell’ambasciata suscita l’interesse di ministri e procuratori, di accademici e cittadini impegnati.
E nonostante gli eterni pessimismi che vagano nella nostra vita pubblica, quando sei chiamato a spiegare le “buone pratiche” italiane ti rendi conto, certo più che in Italia, della strada immensa percorsa dal nostro paese. Racconto pezzi di storia sconosciuta insieme all’ex magistrato antimafia Ottavio Sferlazza, che con l’America Latina ha lunga dimestichezza. E vedo espressioni sorprese, commosse, perfino ammirate.
Confiscare i beni?, domanda un procuratore. Ma qui c’è l’opposizione di un movimento di opinione, qui ci si aggrappa al rispetto delle garanzie per evitarlo, sarà difficilissimo ottenere una legge. L’indipendenza della magistratura? Ma qui se un giudice non va bene al governo può essere destituito senza problemi. Le leggi ripercorse una per una, dalla Rognoni-La Torre in avanti. Quarant’anni in pillole. Non si tacciono le debolezze o le complicità con cui abbiamo fatto i conti.
Ma emergono storie e insegnamenti grandiosi. E cose da repertorio. Le interdittive dei prefetti, i successi di Milano con Expo 2015, la lunga storia della educazione alla legalità o alla cultura antimafia nelle scuole (“nelle scuole?”), gli insegnamenti all’università di Milano (“tutti questi?”), i provvedimenti antiriciclaggio, l’Italia che con i suoi giovani esporta l’antimafia, come di fatto stiamo facendo (noi non giovani) anche soltanto spiegando le cosiddette buone pratiche. E nei racconti, come fiori insanguinati, i nomi degli eroi che tornano.
Cogli la voglia di una parte della classe dirigente di fronteggiare la sagoma nemica che inizia a balenare. Con la speranza che, anche dopo la grande “desilusiòn” dei mondiali, in questo paese ci si possa continuare ad augurare ogni giorno “pura vida”. Vamos ticos!
* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 05/12/2022
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