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Senza racconto non c’è vita. Tutto quello che crediamo di sapere e invece ignoriamo

Nando dalla Chiesa il . Cultura, Diritti, Guerre, Memoria, Società

Anche questa lezione mi sono dovuto prendere. In un incontro privato ma che, come vedrete, spalanca orizzonti a tutti.

Proprio io che predico ovunque che una civiltà senza memoria è come il vecchio di cui parlava Primo Levi, lo puoi portare verso il burrone senza che se ne accorga. O che spiego ai giovani, ma anche agli adulti, la forza salvifica del racconto, della narrazione. È arrivata nel modo più severo, la lezione, le classiche “cinque dita in faccia” che lasciano traccia profonda proprio perché nessuno voleva rimproverarmi.

E infatti dall’altra parte c’era la mia affettuosa zia ultranovantenne, sorella di mia madre, che sono andato a trovare come tutte le volte che passo da Palermo. Che non ci vede praticamente più. Con lei dunque niente foto dei nipotini e niente filmini. Niente giornali e niente libri. Niente “come stai bene” o “ti trovo così e cosà”. Si può solo parlare, raccontare.

E la zia ha incominciato a parlare della sua famiglia di origine, raccontando la solitudine dei miei nonni materni. La nonna che perse tre fratelli (tre fratelli…) nella Grande Guerra, due sul campo di battaglia; un terzo alcuni anni dopo il rientro. Per le malattie contratte, per i gas respirati.

Io la ricordo nitidamente la nonna, nel 1961, centenario dell’unità d’Italia, mentre al sacrario di Redipuglia, davanti a me bambino, cercava ansiosamente in quel mare di lapidi il nome di almeno uno dei due fratelli. Nulla, disperatamente nulla, come negli altri cimiteri visitati. Gli occhi che si facevano umidi. Il più grande dei due era ufficiale di accademia e fu insignito di onorificenze per il coraggio militare, mi ha spiegato mia zia. Il minore però diceva alla sorella “Giulietta, io in guerra non ci voglio andare”. Ci dovette andare invece, e venne ucciso il giorno stesso che spedì una cartolina postale per annunciare che avrebbe avuto “il battesimo del fuoco”.

Il padre, cioè il mio bisnonno, morì di crepacuore alla notizia del secondo figlio. Ed era un severo maresciallo dei carabinieri, di cui nulla sapevo, in una famiglia zeppa di militari dell’Arma.

Mia nonna rimase sola, perciò mio nonno la sposò promettendo che avrebbero sempre portato con loro sua madre senza più figli. Anche lui sapeva che cosa volesse dire la solitudine, essendo morta sua madre di parto ed essendo stato costretto a crescere in collegio già dagli otto anni.

Poi avrebbe avuto una storia difficile. Prigioniero a Smirne durante la prima guerra mondiale, il dramma della ritirata di Russia durante la seconda, dove era andato volontario con la divisione Julia degli alpini. Praticamente a piedi fino ai nostri confini; e di questo sapevo qualcosa, essendo da bambino l’unico che stesse ad ascoltarlo quando a fine pranzo raccontava qualcosa delle sue immense memorie, compresa la scomparsa nella tormenta di neve dell’attendente che aveva voluto seguirlo.

E poi il suo darsi alla macchia durante la Repubblica di Salò, ospitato sulla parola, senza più documenti, da una nobile famiglia senese per mesi e mesi.

Forse a qualcuno tutto questo dirà poco. Ma attenzione: ascoltavo mia zia e mi accorgevo che, alla mia età, ignoravo quasi totalmente pezzi di storia della mia famiglia, io che ho cercato di esserne testimone.

E che ciò che ignoravo chiamava in causa, in realtà. la storia del Paese: le due guerre, il fascismo, le famiglie delle donne sole, la mortalità di un popolo povero, le nostre forze armate, le alleanze internazionali (già, perché prigioniero a Smirne?). Misuravo la forza rivelatrice di quaranta minuti di racconto.

Immaginate quanto sapremmo in più di noi stessi, quanto saremmo più consapevoli, se il racconto tornasse a essere una grande forma di comunicazione, con i vecchi, i migranti o semplicemente con l’“altro”?

Se buttassimo all’aria le povertà mentali (il mito della velocità, la presunzione di sapere…) che ci imprigionano?

* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 17/10/2022

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S. Caterina Da Siena. Giovanna e il collegio dell’Antimafia al confine multiplo di Pavia

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