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Virginio Rognoni. Nostalgia di un mondo in cui i migliori lo sono stati per davvero

Nando dalla Chiesa il . Cultura, Diritti, Istituzioni, Memoria, Politica

“Ma davvero una volta i politici erano così?”.

Alla fine della lezione gli studenti si avvicinarono con incredulità incantata a me e a una mia collega. Avevano appena ascoltato in un corso post-laurea la testimonianza di Virginio Rognoni, chiamato a spiegare come la politica può leggere e affrontare gli scenari internazionali del crimine.

Era il 2014 o il 2015, e il nostro ospite era per eccellenza l’ultranovantenne con “la mente lucida di un sessantenne”, come si diceva di lui per includere comunque nell’elogio un riferimento alla sua esperienza. Il fatto è che quel mattino giovani a digiuno di politica dallo sguardo lungo, dal linguaggio pacato e appropriato, avevano di colpo scoperto la differenza di rango culturale tra quel signore giunto in aula come un alieno e i duellanti dei talk show televisivi.

A questo ho pensato venerdì scorso partecipando ai funerali di Rognoni nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Pavia. Arrivato a novantotto anni, ancora impegnato fino alla sera prima a discutere e prendere appunti, se ne è andato nel sonno. “Con sobrietà”, si dice in questi casi, così come sobria e al tempo stesso solenne è stata l’ora dell’addio pubblico.

E senz’altro il contagioso raccoglimento della folla che riempiva la chiesa contrastava con i toni sgangherati della campagna elettorale che aveva consacrato l’attuale e transeunte ceto politico da Pontida a Roma. Quella folla, come spesso accade, era il riassunto di una vita.

Le divise delle forze dell’ordine, omaggio per chi aveva guidato Interni, Difesa e Giustizia; un po’ della antica sinistra democristiana di cui Rognoni era simbolo; buona parte della Pavia accademica, omaggio per uno stimato professore universitario, gli allievi di Vittorio Grevi, suo più giovane amico, l’ultimo giurista che nel maggio ’92 ebbe ospite per i suoi studenti Giovanni Falcone; una buona spruzzata di magistrati; un po’ di buona politica del tempo che fu. Anche un po’ del vecchio sindacato comunista fatto da chi era entrato in fabbrica ancora ragazzino.

Mi sono guardato intorno, ho scrutato tutti, ho rivisto Romano Prodi, giunto (senza scorte…) con l’inseparabile moglie Flavia, traccia di un Paese pensante, e ho avvertito una distanza.

Non, come si potrebbe ironizzare, tra la storia di Rognoni e le decine di migliaia di “Fridays for future” che riempivano nelle stesse ore le strade di alcune città d’Italia; poiché avevo anzi ben visto l’ammirazione dei ventenni per quell’oratore in viaggio da quasi un secolo.

E ricordavo, a proposito di età, la reazione di un giurista ambizioso quando alla riunione del gruppo parlamentare di cui facevo parte avevo proposto vent’anni fa Rognoni come membro laico al Csm: “largo ai giovani”, aveva commentato beffardo. Poi fu eletto e fu uno straordinario vicepresidente nell’era delle leggi ad personam di Berlusconi e Previti.

La distanza che sentivo era invece tra la compostezza e l’aria di buona cultura che si effondeva dai banchi della chiesa, e in cui si mescolavano il moderato di professione e l’ex scavezzacollo, e la politica come insulto o arrembaggio mentale. La distanza tra i brevi ricordi affettuosi di fine messa e le insopportabili narrazioni narcisistiche di se stessi che infestano tanti funerali di gente famosa.

Così ho amato e rimpianto proprio quella sobrietà. Forse è vero, come ha sussurrato Prodi, che davanti a noi c’era “un mondo che finisce”.

Ma è importante sapere apprezzare il buono che esso ha dato, anche arginando nemici agguerriti, compresi quelli interni. Ad esempio la legge di Pio La Torre a cui, dopo i delitti “eccellenti” dell’82, Rognoni volle apporre la sua firma di ministro dell’Interno per darle forza parlamentare e trasformarla così in uno spartiacque della lotta alla mafia. È stato certo un mondo criticabile. Antico.

Epperò “davvero una volta i politici erano così?”.

* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 26/09/2022

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