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Una ricerca racconta i numeri e il ruolo del Terzo settore in carcere

Luca Cereda il . Associazioni, Criminalità, Diritti, Giustizia, SIcurezza, Società

Il primo volume della ricerca “Al di là dei muri” curata dall’Iref per le Acli fa luce, tra numeri e dati, sul ruolo del Terzo settore nelle carceri italiane raccontando il crollo del volontariato ha fatto crescere il rapporto tra volontari e detenuti, da 1 a 3,1 del 2019 a 1 a 5,4 nel 2020. La flessione maggiore si è avuta per le attività religiose (- 61,3%) e per le attività di formazione e lavoro (-60,5%); anche le attività sportive, ricreative e culturali hanno perso una percentuale consistente di volontari (-56,5%)

È stata presentata nella Casa Circondariale di Busto Arsizio, in provincia di Varese, le Acli nazionali, in collaborazione con le Acli Lombardia, le Acli di Varese e la Fondazione Enaip Lombardia, la ricerca a cura dell’IREF, “Al di là dei muri”, un’analisi approfondita sul ruolo fondamentale del Terzo settore nel mondo del carcere.

Prima della pandemia, l’apporto del terzo settore alla riforma sistema di detenzione era una questione rilevante, al punto da sollecitare l’amministrazione penitenziaria a riconoscere le nuove configurazioni assunte dalla società civile organizzata. A distanza di cinque anni, con di mezzo una crisi sanitaria senza precedenti, l’interazione tra carcere e società si è ridotta di molto. Nell’ambito di un percorso di riforma della giustizia nel quale, come al solito, si replica la contrapposizione tra giustizialismo e garantismo, la prospettiva del carcere come struttura aperta e in dialogo con le comunità e i territori, rischia di finire in secondo piano, anche perché la pandemia ha legittimato, non senza alcune ragioni, l’esigenza di chiudere i cancelli e rendere il carcere impermeabile rispetto all’esterno.

Terzo settore in carcere spesso nasconde lacune e problemi del sistema – Il Terzo Settore è importante soprattutto per l’accoglienza esterna dei detenuti, utile per le misure alternative al carcere. Parliamo delle misure di comunità. Attualmente il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria spende il 97% dei fondi assegnatili per mantenere gli oltre 200 istituti di pena del territorio, quasi 3 miliardi ogni anno. Un investimento a perdere se si calcola l’altissimo tasso di recidiva, che porta gli stessi soggetti ad affollare nuovamente le stesse strutture dalle quali dovevano uscire invece rieducati e reinseriti nel contesto sociale. L’esecuzione penale esterna è quella che riceve meno soldi di tutti. Investire in esecuzione esterna significa anche non lasciare soli gli autori e le vittime, mentre nel sistema attuale i primi spesso sviluppano sentimenti di vittimizzazione e i secondi si sentono abbandonati dalle istituzioni preposte a difenderli. Va dato atto che c’è una crescita esponenziale delle misure di comunità grazie al Terzo Settore. Incrementarle sia completando la riforma dell’ordinamento penitenziaria, sia con i fondi, vuol dire che potremmo fare a meno di costruire nuove carceri. Soprattutto in questa fase di lenta fuoriuscita dalla pandemia, che così tanti danni ha compiuto anche nell’ambiente carcerario, occorre agire in modo sistematico per la ricomposizione del tessuto sociale nelle parti in cui più forti sono le lacerazioni, e più necessario è il lavoro di cura che è proprio del Terzo settore. Nonostante il disinteresse generale, ci sono centinaia di migliaia di cittadini italiani che si impegnano in associazioni, fanno volontariato, si attivano per rivendicare la dignità dei detenuti. La società civile organizzata è un attore fondamentale nel sistema penale italiano. Difatti, sempre nel documento finale degli Stati generali del 2016, si riconosce l’importanza che nel sistema italiano di esecuzione penale ha il volontariato che affianca gli educatori che sono 774 mentre l’organico previsto è di 895 persone (ovvero -13,5%). Ciò significa 1 educatore ogni 79 detenuti. Questa carenza di organico si è manifestata in tutta la sua gravità durante la pandemia, quando i penitenziari italiani hanno chiuso i cancelli e il terzo settore è rimasto fuori dalle carceri, riducendo in modo drastico l’offerta di attività trattamentali.

Il ruolo “sistematico” del Terzo settore in carcere – I dati sulla presenza del terzo settore nel sistema carcerario non sono molti. Sino al 2008, la Conferenza nazionale volontariato e giustizia realizzava una rilevazione annuale sul volontariato penitenziario. Oggi, l’unica fonte primaria disponibile sono le cosiddette schede di messa in trasparenza con le quali il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria rende pubbliche la maggior parte delle sue attività. Ma si tratta di una fonte frammentaria e derivata da obblighi amministrativi, per cui le definizioni operative dietro i numeri sono spesso opache e astratte: sorprende che i dati di una pubblica amministrazione dalle funzioni così rilevanti non siano resi disponibili in formato aperto e interoperabile. Comunque sia, tramite le schede del Dap è almeno possibile iniziare a quantificare la portata del volontariato penitenziario. Nella tabella si propone il confronto tra il numero di soggetti esterni coinvolti in “attività ricreative” nel 2019 e nel 2020.

Il primo dato da evidenziare è il dimezzamento del contingente di volontari (da 19mila a 9mila): la pandemia ha ridotto della meta gli ingressi all’interno delle carceri. Sebbene il numero di detenuti nei due anni considerati sia diminuito di 7.409 unità (dati fuori tabella), il corrispondente crollo del volontariato ha fatto crescere il rapporto tra volontari e detenuti, da 1 a 3,1 del 2019 a 1 a 5,4 nel 2020. La flessione maggiore si è avuta per le attività religiose (- 61,3%) e per le attività di formazione e lavoro (-60,5%); anche le attività sportive, ricreative e culturali hanno perso una percentuale consistente di volontari (-56,5%); più bassa è la flessione rilevata tra i volontari impegnati in attività di sostegno alle persone e alle famiglie, diminuiti del 31%.

Il Terzo settore porta in carcere formazione, lavoro e sport: i numeri – L’impegno del terzo settore e dei suoi operatori (volontari o meno) all’interno delle carceri si esplica in modi eterogenei, all’interno e all’esterno, attraverso progetti specifici o supportando i compiti istituzionali dell’amministrazione, in partenariato con altri enti o da soli, coinvolgendo solo i detenuti o anche i loro familiari. Purtroppo, solo una parte di queste attività sono tracciate statisticamente, ossia quelle svolte in diretta collaborazione con l’amministrazione penitenziaria. Anche in questo caso, occorre ribadire che il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria pecca in sistematicità.

Lavoro – Il lavoro impegna solo un terzo dei ristretti, e bisogna precisare che nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di un’occupazione alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, ovvero dei cosiddetti “servizi d’istituto” (pulizie, manutenzione ordinaria, lavanderia, cucina). Questo tipo di impieghi, nel concreto, non sono posti di lavoro, ma turni di lavoro che prevedono anche mesi di attesa tra un turno e l’altro. Peraltro, i servizi d’istituto sono ripetitivi e monotoni per cui offrono un incentivo molto basso in termini di soddisfazione lavorativa, tutt’al più hanno la funzione di permette una maggiore libertà di movimento all’interno della prigione.

Negli ultimi 30 anni la percentuale di detenuti che lavora non alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, calcolata dal Dap sul totale dei lavoranti, è sempre rimasta compresa tra il 10% e il 15% e tranne una percentuale trascurabile dalla statistica, i detenuti vengono contrattualizzati solo da enti del Terzo settore, cooperative, soprattutto. Se si cambia la base di calcolo, considerando tutti i detenuti, e non solo il totale dei lavoranti, si ottiene che solo il 4% dei detenuti lavora con un soggetto esterno al carcere: a giugno 2021, si trattava di 2.130 persone.

Formazione – Considerando i detenuti coinvolti in percorsi formativi, la ricerca dell’Iref segnala che la prima informazione che salta all’occhio è la percentuale di iscritti sul totale dei detenuti presenti: nell’ultimo quinquennio, il dato non ha mai superato un esiguo 5%, crollando all’1,4% nel primo semestre del 2020. La pandemia ha avuto sicuramente un impatto negativo sulle opportunità formative dei detenuti italiani. Tuttavia, anche prima di questo evento le chances erano comunque limitatissime. La platea di beneficiari degli interventi formativi si restringe ancora se si considerano solo i detenuti che terminano i percorsi, o meglio che sono riusciti a frequentare completamente un corso che non è stato, prematuramente, chiuso. È questa una condizione che riguarda, con oscillazioni di semestre in semestre, circa due detenuti su tre. Anche in questo ambito il ruolo degli Ets (Enti del Terzo Settore) è rilevante: tutti i principali enti di formazione, emanazione di sindacati e organizzazioni sociali di varia tradizione, realizzano percorsi formativi all’interno delle carceri.

Sport – Gli ultimi dati disponibili sulla pratica sportiva nelle carceri, riferiti a fine 2017, restituiscono uno scenario nel quale l’offerta è molto inferiore alla domanda potenziale: dei 57.608 ristretti presenti a fine anno, solo il 28,2% ha svolto una qualche attività sportiva. E il dato potrebbe essere sovrastimato poiché alcuni detenuti potrebbero aver partecipato a più di un’attività sportiva nel corso dell’anno. Guardando alla composizione per genere dei praticanti sport non si notano divari significativi, mentre se si considera la nazionalità dei detenuti si nota una differenza in favore dei detenuti con nazionalità non italiani: nel 2017, ha praticato sport in carcere il 32,6% degli stranieri a fronte del 20,5% dei detenuti italiani; questo divario è probabile che sia legato all’età media più bassa dei detenuti stranieri. Anche in questo caso le attività offerte principalmente arrivano da associazioni e realtà del Terzo settore come Csi.

L’impegno delle Acli in carcere – La ricerca descrive poi le attività che le Acli hanno avviato per rendere più umano il carcere e accompagnare i detenuti durante il periodo di reclusione e dopo. Attraverso un’analisi tematica di 16 interviste in profondità a testimoni privilegiati che si sono occupati della realizzazione dei progetti delle Acli in carcere, è posto in evidenza l’impegno sociale dell’associazione.

Effettuato poi un focus su tre organizzazioni che da decenni si sobbarcano l’arduo compito di accompagnare i detenuti verso una possibile occasione di riscatto: il Centro di Accoglienza Padre Nostro nel quartiere Brancaccio di Palermo, eredità di don Pino Puglisi; Made in Jail nel quartiere Quadraro di Roma e la Comunità Nuova a Milano.

La ricerca “Al di là dei muri” è solo un primo passo, come ha spiegato alla presentazione dentro la casa circondariale di Busto Arsizio Antonio Russo, vice presidente nazionale Acli: “Le Acli ritengono importante approfondire il ruolo del Terzo settore nel carcere, non una tantum, ma attraverso un’analisi cadenzata e regolare, capace di monitorare negli anni l’importante ruolo che esso svolge in questi luoghi. Il rapporto ci consegna un primo punto sull’impegno del mondo non profit in tema di detenzione e ci consente di individuare piste di lavoro per le successive edizioni del Rapporto con un focus particolare sull’importante tema della re-entry”.

Fonte: vita.it

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