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Padre Giuseppe Puglisi, ora Beato: la sua morte ha “illuminato” la Chiesa

Luca Tescaroli * il . Chiesa, Giovani, Mafie, Memoria, Sicilia, Società

Dopo aver colpito al cuore la cristianità con le stragi in simultanea del 28 luglio 1993 nella capitale ai suoi luoghi simbolo (la chiesa più antica, quella di San Giorgio al Velabro, e la basilica di San Giovanni in Laterano, cuore della Roma cristiana), i sanguinari fratelli Giuseppe e Filippo Graviano – al vertice del mandamento di Brancaccio, posto alla periferia di Palermo, che conoscono i contenuti dei patti che hanno segnato lo stragismo del biennio ’93-’94 e che mirano a uscire dal carcere, confidando sull’eliminazione/modifica della normativa sull’ergastolo ostativo, ritenuta dalla Corte Costituzionale non più uniforme al dettato della carta Costituzionale – inviarono i loro fidati sicari per assassinare padre Giuseppe Puglisi.

Gaspare Spatuzza, Salvatore Grigoli, Cosimo Lo Nigro e Luigi Giacalone entrarono in azione il 15 settembre 1993, intorno alle ore 20,40, nel piazzale Anita Garibaldi, all’altezza del civico n. 5: Grigoli gli sparò alle spalle un colpo solo alla nuca, con una pistola calibro 7,65 munita di silenziatore, da breve distanza (come confessò quattro anni dopo, quando venne arrestato e iniziò a collaborare con la giustizia), mentre stava introducendo le chiavi nella serratura per aprire il portone della sua modesta abitazione; Spatuzza gli stappò il borsello per simulare una rapina.

Il sacerdote operava proprio nel quartiere degradato di Brancaccio, si era dedicato al recupero dei bambini non scolarizzati, istituendo corsi di scuola elementare e media, aveva creato il centro di accoglienza “Padre Nostro”, luogo vicino alla parrocchia San Gaetano, per dare assistenza ai minori a rischio, agli anziani, alle madri sfrattate e ai disadattati, provvedendo anche alla raccolta dei fondi per l’acquisto dei locali che ospitavano il centro, si occupava dei familiari dei detenuti e delle opere di misericordia in genere, fungeva da direttore spirituale e animatore del “Comitato Intercondominiale” di via Azolino Hazon, istituito e composto da volontari che si erano associati allo scopo di migliorare la qualità della vita del quartiere, attraverso diverse iniziative, aveva scelto di schierarsi, senza ambiguità, dalla parte dei deboli, di denunciare i soprusi mafiosi e di impedire ai potenti del quartiere di sponsorizzare iniziative volte a raccogliere sostegni elettorali.

Aveva raccolto l’invito del Papa, rivolto ai vescovi e ai sacerdoti nel suo celebre discorso del 9 maggio 1993 nella Valle dei Templi, a “non essere tiepidi e deboli” nel combattere la “mafia e i mafiosi”, bollati, rispettivamente, come “peccato sociale” e “assassini”, quando la Chiesa siciliana era pervasa dall’inerzia tollerante e indifferente nei confronti di cosa nostra.

I famigerati fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, condannati come mandanti con sentenza definitiva della Corte di Cassazione del 7 dicembre 2001, ordinarono che il medico Salvatore Nangano, insospettabile favoreggiatore dei mafiosi, fosse posto “alle costole” di Don Pino per seguirne i movimenti che furono di preparazione all’assassinio, perché avevano il sospetto (rivelatosi infondato) che all’interno della parrocchia e del centro di accoglienza “Padre Nostro” (posto a poche decine di metri dal domicilio anagrafico dei fratelli e su un’arteria di quel quartiere di interesse strategico: la via Conte Federico) albergassero agenti di polizia in missione.

Quel centro e l’attivismo antimafia del povero padre Puglisi, che ha agito in solitudine, costituivano un grosso pericolo per la loro libertà di movimento, di cui pur godevano durante la loro latitanza, grazie all’omertà e al terrore che regnavano nella zona, e la decisione di quell’omicidio era già maturato da tempo.

Il delitto ha concretamente impresso una spinta decisiva al faticoso cammino della Chiesa verso la concreta aperta abiura della criminalità mafiosa e a un’azione pastorale attiva tesa a sottrarre ai boss il loro retroterra culturale, i giovani soprattutto.

Sebbene la comunità ecclesiale non si si sia costituita parte civile nei processi celebrati, il suo esempio di vita coraggioso (come lo è stato quello di Giuseppe Diana, ucciso in altro contesto territoriale, a Casal di Principe da appartenenti alla camorra il 19 marzo 1994) ha svolto una funzione di traino per l’azione di altri sacerdoti che, a partire da quel crimine, si sono impegnati in una concreta attività preventiva di contrasto al crimine mafioso, diffondendo un autentico messaggio evangelico non fatto di mere parole.

* Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Firenze

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 14/09/2022

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