“In qualche modo”. La formula magica per nascondere i discorsi fatti sul nulla
“In qualche modo”. Ebbene sì. Se dovessi indicare un simbolo della lunga cavalcata della imprecisione, dell’approssimazione, e anche dell’irresponsabilità nei nostri costumi proporrei di piazzare in prima posizione questa formula magica di tre parole.
Non c’è ormai discorso a braccio, pubblico intervento, perfino scritto, che non lo contempli. Roba da fare impallidire il “per così dire” degli anni ottanta.
“In qualche modo” esenta dal trovare parole appropriate, dal costruire frasi logicamente rigorose. Lo so che le cose non sono esattamente così, sembra dirci l’oratore di turno in un empito di cordialità; lo so che non sto dicendo una cosa esatta, ma è come se lo fosse. Lo è “in qualche modo”. Dunque sdoganatemi il pasticcio mentale, consideratemi un intellettuale anche se sto barando con le parole.
Che strana storia hanno gli orrori verbali. Anche questo, come il “finalizzare” usato per “concludere”, è nato e si è fatto largo nella cronaca calcistica. Molti anni fa. Nelle sedi meno prestigiose, nelle tivù private locali, grazie a giovani telecronisti ricchi di ardore ma non di vocabolario, in linea con la media delle ultime generazioni. C’era sempre nelle mischie più furibonde un difensore che liberava la propria area “in qualche modo”. Per dire “alla viva il parroco”. La formula era del tutto sensata, poiché esprimeva la fatica, la confusione delle fasi di gioco e anche la possibile broccaggine del difensore che aveva miracolosamente sbrogliato la matassa.
Poi “in qualche modo” si trasferì all’attacco. E iniziò a spiegare il successo di questa o quella giocata che aveva prodotto un gol in situazioni confuse: il colpo di tacco impensabile, la deviazione di ginocchio sotto porta eccetera. Infine arrivò a centrocampo, e lì si prese la regia di tutto.
Poi, siccome deve essere vero che la moneta cattiva scaccia quella buona, il gergo da telecronisti concitati e non troppo sapienti si è impossessato, attraverso la formula magica a tre parole, dell’eloquio di intellettuali, giornalisti, professionisti, insegnanti, politici.
La cui pigrizia, quando esistente, non chiedeva di meglio. Un bel ferro del mestiere che evitasse di lambiccarsi il cervello, di ispezionare mentalmente i propri repertori o consultare il dizionario di casa.
Il governo ha “in qualche modo” impedito la mobilità sociale. Ho detto che ha impedito la mobilità sociale? Ma no, non l’ho affermato in assoluto, tanto che ho “precisato” “in qualche modo”. Già, e in quale modo il tale governo ha influenzato la mobilità sociale? Perché i modi sono tanti. Alcuni devastanti, altri possono perfino essere virtuosi. E prima ancora di verificarne i principi ispiratori, occorre verificare se essi siano stati davvero messi in atto. Cosa che è anch’essa da studiare. Con competenza, con pazienza. Mettendocisi di buzzo buono. Per arrivare a proporre tesi chiare e verificabili/falsificabili.
Si potrebbe dire che un paese che certo non scoppia di senso di responsabilità, che si rifugia nell’accidia o nel silenzio per non sbagliare, ha finalmente trovato il suo linguaggio ideale. Dimmi come parli e ti dirò chi sei.
Altro che la precisione che Italo Calvino raccomandava come attributo indispensabile delle parole. Altro che il pensiero preciso di Cartesio. Le nostre presentazioni televisive, i nostri forum politici, le affabulazioni dei nostri esperti hanno trovato il loro “scacciapensieri”, tanto più nobile del folcloristico strumento musicale siciliano.
Non so se valesse la pena dedicare una puntata di queste “Storie italiane” alla questione. Io credo in qualche modo di sì.
Certo la formula magica a tre parole si è imposta, come fa da anni sgomitando tra le parole, in mezzo a cento altre questioni di un certo rilievo. Questo va doverosamente rimarcato.
È pur sempre in corso la campagna elettorale. E in qualche modo è morta la Regina.
* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 12/09/2022
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Dalla Chiesa. Povero Generale, oggi ancora vittima di calunnie “accertate” in buona fede
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