Dalla Chiesa. Povero Generale, oggi ancora vittima di calunnie “accertate” in buona fede
Ennò, anche Luca Tescaroli no, santo cielo! E in cielo sto appunto scrivendo, sull’aereo che mi porta a Palermo alla vigilia dell’anniversario della strage di via Carini in cui furono uccisi mio padre il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, la sua seconda moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo.
Andavo proprio chiedendomi se e che cosa scrivere su questo anniversario per le mie “Storie italiane”. Quand’ecco di colpo l’argomento. Perché aereo significa lettura di giornale, poi del “Fatto”, poi dell’articolo di Luca Tescaroli “in memoria” di mio padre; bello, salvo chiudersi con l’affermazione che di lui, mio padre, sia “accertata” l’iscrizione alla P2. Ah sì? Ma “accertata” dove?
Luca Tescaroli è magistrato dai molti meriti. Scrissi in sua difesa quando era sotto tiro della mafia, scrissi per due suoi bei libri altrettante prefazioni, è stato punto di riferimento per diverse indagini giudiziarie anche fuori dalla Sicilia.
Ora scopro con sgomento che però perfino lui può dare ai lettori una notizia falsa e grave, senza controllarla alla fonte. Rendendo omaggio al generale, beninteso. La cui memoria deve essere veramente alla mercé di chiunque.
Perché l’iscrizione non è affatto stata accertata in nessuna delle due sedi competenti: né dalla Commissione parlamentare P2, guidata da una presidente, Tina Anselmi, che si è guadagnata nel suo incarico stima generale. E nemmeno dai giudici Gherardo Colombo e Giuliano Turone, due signori che hanno contribuito a scrivere la storia della magistratura italiana; i quali condussero la celebre perquisizione di Castiglion Fibocchi e le indagini relative alla P2 senza fare sconti a nessuno.
Non per nulla da tempo Giuliano Turone spiega appassionatamente nei dibattiti pubblici come andarono le cose. Mio padre venne emarginato nell’Arma, un generale suo superiore lo andò a trovare a Torino, gli disse di vederlo giù di morale, gli chiese che problemi avesse, gli propose di farsi tutelare meglio nelle istituzioni.
Bastava fare domanda di iscrizione a un circolo di amici, di cui faceva parte anche il suo comandante generale. Mio padre soprassedette. L’altro gli disse che sarebbe allora tornato. E tornò. Mio padre firmò. E dopo un po’ di tempo chiese (così sta scritto anche nelle sue lettere immaginarie a mia madre morta) di restituirgli la domanda, poiché la cosa non gli piaceva. Gli altri invece la trattennero, “sperando di condizionarlo” dice Turone. In ogni caso la domanda non ebbe seguito.
Il fatto dunque non è per nulla accertato.
La storia dell’iscrizione la ripeté ossessivamente Cossiga, che non perdonò mai a mio padre, e neppure al ministro dell’Interno Virginio Rognoni e a Gian Carlo Caselli, di non averlo “coperto” nella vicenda del favoreggiamento del figlio di Carlo Donat Cattin, terrorista di Prima Linea.
Non sapendo come contrastare l’evidenza, Cossiga dichiarò che l’iscrizione non si era trovata perché Colombo e Turone, per proteggere mio padre, avevano strappato la pagina relativa dall’elenco. Tesi risibile anche logicamente, spiegarono i due.
E allora? E allora pare che più magistrati, anche di valore (recentemente nel suo libro Giovanni Tamburino), sia maturata l’idea che, almeno per il generale dalla Chiesa, i fatti vengono accertati dalle proprie convinzioni o supposizioni o fonti inquinate.
Come quella sentenza di Perugia (che dà per certa l’iscrizione) che in università facciamo studiare in metodologia della ricerca, per spiegare che a volte gli atti giudiziari, ritenuti i più attendibili di tutti, sono invece dei falsi clamorosi, frutto dei deficit cognitivi e deontologici del magistrato.
Povero quel generale che fece la Resistenza, combatté il terrorismo e combatté la mafia fino a esserne scempiato, per ritrovarsi, da morto, vittima di calunnie “accertate” in buona fede…
* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 05/09/2022
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