Note e riflessioni sui suicidi in carcere
Uno straniero con problemi psichiatrici è la cinquantanovesima persona detenuta che si toglie la vita in carcere. È accaduto a Bologna, il primo giorno di settembre, proprio mentre ricevevamo da Mauro Palma l’articolo che presentiamo. Si tratta di una riflessione densa, capace di chiamare in causa l’esterno, la società – ci crediamo assolti, ma siamo coinvolti, scriveva Fabrizio De André – prima di focalizzarsi sulla configurazione e sulla fisionomia dell’interno, del carcere e sulle sue auspicabili trasformazioni. Pubblichiamo, inoltre, la Circolare Dap alla quale l’articolo fa riferimento.
Ferragosto. Prima mattina: disteso sul letto non risponde alla chiamata come sempre un po’ trasandata e un po’ annoiata dell’agente. È proprio quest’ultimo a guardare bene all’interno: il detenuto non è reticente a rispondere per continuare il sonno; no, ha un sacchetto sulla testa ben annodato in modo da garantire il soffocamento. Si è suicidato nella notte.
Siamo in una grande città, Torino, sarà riportato come il cinquantunesimo dall’inizio dell’anno. Anche in questo caso una persona molto giovane: venticinque anni ed entrata in carcere dalla libertà da meno di due settimane.
Il reato riportato nella sua scheda è rapina, ma non c’è stato modo di accertare nulla tanto breve il tempo – peraltro pigramente estivo – trascorso tra il suo ingresso nel mondo della privazione della libertà e la sua uscita per decesso. La scheda dice che aveva genitori, una casa: altro non sappiamo della sua vita, ma certamente non possono essere state le condizioni detentive così aspre e spesso disattente alla dignità delle persone, ospitate e ospitanti, ad avere determinato il suo gesto, perché non le aveva ancora sperimentate nei fatti.
Oggi, mentre torno a scrivere queste riflessioni – ventisettesimo giorno di agosto – ricevo la notifica del sedicesimo suicidio in questo mese e cinquantasettesimo del terribile conteggio del 2022: sono passati solo dodici giorni dalla mia nota precedente e il contatore ha avuto un incremento di sei, quasi un caso a giorni alterni.
Quest’ultimo è avvenuto solo quattro ore dopo la traduzione in carcere: era un giovane adulto di trentaquattro anni, di origine tunisina e senza fissa dimora – così riporta la scheda, dove annota che la ragione del suo arresto anche in questo caso è stata una rapina. Qui il reato ha presumibilmente una sua consistenza criminale, a differenza invece del caso che lo ha preceduto, quello del giovanissimo nigeriano di venticinque anni che si è suicidato l’altro ieri e che era stato tradotto in carcere due mesi fa in attesa di giudizio per il reato di «resistenza a pubblico ufficiale» (articolo 337 c.p.).
Non riporto questi casi per richiamare con impressionismo la drammaticità di un sistema dove si viene ristretti con molta facilità, soprattutto se si è marginali nel contesto sociale in cui si è malamente inseriti, e dove con altrettanta facilità si viene accolti dal sistema deputato a detenere, tutelare e gradualmente reinserire, solo come ulteriore problema o al più come un fascicolo da gestire con una improvvisa collocazione in luoghi già densi di difficoltà.
Non è questo il richiamo implicito nel riportare i casi, anche se non nascondo l’impellenza di interrogativi che riguardano sia l’effettiva tutela, anche legale, di persone socialmente fragili – la densità dei «senza fissa dimora» tra coloro che per pene brevissime sono ristretti in carcere è altissima – sia il frequente ricorso alla misura detentiva per reati anche minori, pur nel profluvio di affermazioni del carcere come misura estrema. E che riguardano altresì quale accoglienza, attenzione e vicinanza possa aver ricevuto una persona che, entrata in carcere in un sabato estivo, si sia suicidata soltanto poche ore dopo.
Riporto piuttosto questi casi – che non sono isolati, perché molti altri hanno con essi una somiglianza strutturale – solo per sgombrare il campo da una visione deterministica che connette le decisioni estreme alla difficoltà materiale della detenzione. Troppo brevi sono state in molti casi le permanenze all’interno del carcere per supportare tale visione; troppo frequenti sono anche i casi di persone che a breve sarebbero uscite, per non capire che a volte – spesso – è l’esterno a far paura quasi e più dell’interno.
È la funzione simbolica dell’essere approdati in quel luogo a costituire un fattore determinante per tali decisioni estreme: quella sensazione di essere precipitato in un ‘altrove’ esistenziale, in un mondo separato, totalmente ininfluente o duramente stigmatizzato anche nel linguaggio dei media e talvolta anche delle istituzioni, che caratterizza il luogo dove si è giunti, a essere determinante. Anche perché spesso ci si è giunti dopo vite condotte con difficoltà e lungo il bordo del precipizio che separa sempre più concretamente il percepirsi parte della collettività e il collocarsi ai suoi limiti estremi.
Ma proprio perché è prevalente la funzione simbolica su quella della materialità, i suicidi non interrogano solo chi ha la responsabilità diretta della detenzione – cioè chi ne determina politicamente il profilo e che conseguentemente ne amministra lo svolgersi – perché interroga tutta la collettività esterna che di quel simbolismo è produttore ed elemento consolidante. Innanzitutto, interrogano sulla sensatezza del tempo recluso, perché la sottrazione del tempo soltanto in funzione del vuoto non è accettabile ed è prodromica alla percezione del proprio annullamento.
Più volte, anche recentemente, mi è capitato di sottolineare che una persona privata della libertà, qualsiasi ne sia stata la causa, diviene titolare, proprio in virtù di tale privazione, del diritto a che la finalità che ha determinato la sottrazione del bene che l’articolo 13 della Carta definisce «inviolabile» sia effettivamente perseguita e che non si lasci spazio alla mera sottrazione del tempo vitale. Questo vale per chi è ristretto in una struttura sanitaria per motivi di cura e riabilitazione, per chi lo è in un centro per il rimpatrio, per chi è in carcere per esecuzione di una pena che ha diritto a che la tendenziale finalità rieducativa sia effettivamente perseguita e anche per chi è in custodia cautelare che deve percepire la ragione del proprio tempo sottratto in funzione dell’indagine su quanto commesso o della prevenzione rispetto alla possibile nuova commissione
. Questo richiamo alla motivazione da un lato rende impossibile il tempo vissuto nel nulla meramente privativo, dall’altro richiede attenzione specifica in tutte le fasi della reclusione, sia con un supporto accentuato alla fase iniziale, sia con il perseguimento della significatività del tempo sottratto, sia, infine, nell’accompagnamento al ritorno al contesto esterno.
Richiede, quindi, la costruzione della capacità del dare senso al proprio tempo e di non renderlo solo espropriazione: un’azione che non può essere condotta senza risorse adeguate, preparazione professionale mirata e soprattutto senza un discorso esterno che non sia quello triviale del castigo meritato e dell’abbandono. Della chiave buttata.
L’analisi dei casi di suicidi in carcere – anche limitatamente a quest’ultimo anno – conferma questa necessità di un discorso pubblico diverso sulla pena, non ristretto ai pochi da sempre presenti su questo tema e non connotato ideologicamente, ma riportato nel solco dell’utilità della funzione penale, dei suoi limiti, delle sue necessità in termini di qualità professionale e di capacità di allineamento con lo svolgersi della vita esterna.
Tutto ciò ancor prima del tema, peraltro urgente, della riqualificazione materiale delle strutture. Perché, come già accennato, la loro non dignitosa fisionomia attuale è concausa di un senso di vuoto invivibile che può determinare la scelta estrema, ma non ne è la causa principale.
Esaminando un campione di una quindicina di casi, per esempio, così come fatto dall’Ufficio del Garante nazionale per tentare una possibile decodifica dell’incremento recente dei suicidi, si rileva che ben nove di essi hanno riguardato giovani al di sotto dei trent’anni e altri tre tra i trenta e i quarant’anni: tutte persone che non avevano già vissuto una esperienza di lunga detenzione; al contrario, ben otto (quindi più della metà) era in attesa del giudizio di primo grado.
La correlazione invece che a prima vista appare diretta è con l’essere in molti casi già stati segnalati all’interno dei cosiddetti “eventi critici”, non solo di natura autoaggressiva, molto spesso con un passato di disturbi comportamentali già manifestati. Si conferma simmetricamente la percentuale alta di coloro che, definitivi, erano prossimi al termine dell’esecuzione penale.
Questo quadro tende a dare l’immagine di una difficoltà soggettiva amplificata nel rapporto improvviso non solo con la privazione della libertà, ma con la sua concretizzazione in un ambiente degradato dove alla percepita irrilevanza da parte del mondo esterno si aggiunge la specifica irrilevanza vissuta all’interno di un ambiente stressato e impersonale.
Per questo, il primo, ancor timido, approccio alla necessità di una diversa impostazione multidisciplinare al tema e alla sua declinazione concreta che emerge nella recente circolare emanata dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, va accolto positivamente.
Occorre agire in più direzioni, partendo da un dato che nella sua crudezza numerica sintetizza l’impellenza e la drammaticità del tema: l’Italia, nel confronto con altri Paesi europei, non ha un’alta percentuale media di suicidi nell’anno, ma tale valore cresce secondo un fattore moltiplicativo di più di quindici volte quando si considera il sottoinsieme della popolazione detenuta. Più di quanto non cresca in termini relativi in altri Paesi che partono da valori esterni maggiori.
La prima direzione verso cui agire è certamente quella di una immissione di figure di mediazione sociale e supporto all’interno degli Istituti, con profili differenziati così come molteplice è ormai la complessità esterna, ridefinendo, quindi, le professionalità esistenti e investendo, oltre che sul numero, sulla tipologia del loro intervento.
Un intervento che sempre più deve ridurre la distanza che separa l’interno con l’esterno. Non può essere un compito affidato agli operatori di Polizia penitenziaria, il cui compito – importante per la prossimità implicita che rappresenta con chi è ristretto – deve essere recuperato nella specifica funzione di svolgimento regolare e ordinato e di sicurezza verso l’esterno.
La seconda direzione va anch’essa nella riduzione della distanza con l’esterno: sia nel forte incremento delle possibilità di connessione – ovviamente in condizioni di sicurezza – con i propri affetti, sia nella loro regolata normalità e nell’utilizzo positivo di quanto offerto dalle tecnologie della comunicazione e dell’informazione.
Un aspetto, questo che, oltre a essere ineludibile in relazione al positivo reinserimento futuro in una società in rapida trasformazione tecnologica, può essere un chiaro indicatore del non essere precipitati in un mondo diverso, bensì in un mondo che cerca di tenere il ritmo dell’andamento temporale esterno, che non è “altro” da ciò che è oltre quei muri, ma ne è parte, quantunque complessa. Un mondo, sì limitato e recluso, ma dove è sempre chiaro che l’essenza della pena è solo nella privazione della libertà e non in altri fattori de-contestualizzanti: questo il messaggio che può aiutare a superare quell’invivibile angoscia del vuoto.
Queste due direzioni hanno incidenza sull’adempimento a quella indicazione delle Regole penitenziarie europee riportata in apertura della corposa Raccomandazione del Consiglio d’Europa come principio fondamentale (il quinto dei nove principi di questo tipo): «La vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera».
Difficile il rispetto di tale principio – nonostante abbia avuto l’approvazione dei rappresentanti del governo di ciascuno dei Paesi del Consiglio, incluso il nostro – nel sistema detentivo italiano. Difficile, anche perché il nostro sistema tuttora non riconosce l’integrità personale, anche corporea, della persona ristretta, negandole la possibilità di rapporti intimi con propri partner e altrettanto difficile non rendere questa negazione come emblematica dell’alterità irriducibile che quei muri racchiudono. Ma questo aprirebbe a un altro tema, molte, troppe, volte rinviato.
La terza direzione di un’azione preventiva di molti aspetti nefasti e anche dei suicidi è quella della riduzione dei numeri e della conseguente maggiore ed effettiva presa in carico delle persone soprattutto al loro ingresso. Una riduzione da non ricercare con soluzioni temporanee, provvisorie, destinate a essere superate dall’inevitabile ripresentarsi della difficoltà dopo un certo tempo.
Occorre restringere la platea delle persone in carcere. A partire da un dato chiaro: oggi – mentre scrivo – 1301 persone sono ristrette in carcere per scontare una pena inferiore a un anno, mentre altre 2567 scontano una pensa compresa tra uno e due anni.
È evidente l’impossibilità che si attui un qualsiasi progetto volto a un diverso ritorno all’esterno in tempi così brevi e che il tempo della permanenza in carcere sarà per queste quattromila persone soltanto tempo vuoto, interruzione di una vita a cui tornare forse in situazione soggettiva peggiore, certamente con maggiore difficoltà. Ma questi numeri non costituiscono soltanto un evidente indicatore di come la finalità rieducativa sia solo mera enunciazione in un sistema che tiene le persone ristrette per alcuni mesi ed evidentemente per reati di minore allarme sociale; costituiscono anche un indicatore della minorità sociale che connota queste persone che non hanno evidentemente strutture esterne di riferimento, spesso neppure una fissa dimora, certamente una scarsa assistenza legale, molte volte neppure strumenti di comprensione del senso del loro essere in carcere e delle possibilità che l’ordinamento prevede.
Riandando indietro negli anni, Alessandro Margara, aveva prospettato la possibilità di strutture diverse, di responsabilità territoriale, dove tali persone, per le quali egli parlava di «detenzione sociale» potessero trovare supporto e anche controllo, ma soprattutto una presa in carico più attenta e una minore percezione del nulla a cui si era improvvisamente giunti: nell’ultimo anno il ventiquattro percento – quasi un quarto – delle persone che si sono suicidate in carcere era «senza fissa dimora».
Un progetto di responsabilità territoriale e di previsione di strutture di tipo diverso dal carcere – quello ipotizzato da Margara – che deve essere ripreso. E che interroga sul rischio di continuare a configurare altrimenti il carcere come punto di arrivo di problemi soggettivi, stili di vita non omologati, emarginazioni, che avrebbero dovuto trovare altri strumenti di composizione e regolazione.
Ritorna tuttavia la riflessione iniziale: le scelte soggettive, così drammatiche, del porre fine alla propria vita vanno anche rispettate nella loro non univoca e difficile leggibilità e forse non potrà mai aversi una situazione in cui tali esiti fatali non si verifichino.
Resta però la nostra responsabilità collettiva nell’affinare gli strumenti di lettura e di prevenzione; resta altresì la responsabilità intrinseca che è in capo a chi amministra e gestisce la privazione della libertà di una persona di tutelare al massimo la sua vita e la sua integrità fisica e psichica.
Resta l’obbligo di interrogarsi su ogni singolo episodio, di apprendere anche dal suo tragico esito, di evitare che esso possa essere annotato come una sorta di rischio collaterale. Così sperando di affinare la capacità di prevenzione non ricorrendo inutilmente a continue sottrazioni di possibilità – dagli indumenti al mobilio della cella, agli oggetti – bensì ad addizioni di possibilità con relazioni, contesti, contatti, vicinanza.
* Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale
Fonte: Questione Giustizia
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