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Mio fratello Giuseppe Francese, una ferita aperta

Giulio Francese il . Giustizia, Informazione, Mafie, Memoria, Sicilia

A 20 anni dalla scomparsa è sempre vivo il suo esempio di lotta contro il muro del silenzio

Il 3 settembre di 20 anni fa mio fratello Giuseppe decise di lasciarci, doveva fare 36 anni.

È un anniversario doloroso per me e la mia famiglia, una ferita ancora aperta. Giuseppe era l’allegria, la spensieratezza, ma anche il dolore soffocato dentro per molto tempo. Un dolore che l’ha corroso dentro ma che non gli ha impedito fino all’ultimo di portare a termine la sua missione di rendere verità e giustizia a nostro padre.

Ci ha insegnato a non rassegnarci, ci ha spinti a lottare per abbattere il muro di silenzio, ha cominciato a leggere tutto sulla mafia, a scrivere. È stato un gigante che ha sfidato le sue fragilità ed ha pagato un prezzo altissimo.

Venti anni dopo vogliamo ricordare il ragazzo sorridente, sempre pronto alla battuta, generoso. Vogliamo ricordarlo non nel giorno della morte, ma in quello del compleanno, 56 anni, perché Giuseppe è ancora vivo nel cuore di molti, non solo della sua famiglia.

Lo ricorderemo, perciò, questo pomeriggio a Bagheria, alle ore 18, nella chiesetta di Santa Rosalia a Villa Cattolica, con una messa celebrata da padre Francesco Michele Stabile, e a Palermo il 9 settembre, alle ore 17 a Palazzo Montalbo, in via dell’Arsenale 52, sede del Centro regionale per la progettazione e il restauro diretto dalla dottoressa Alessandra de Caro, che ha aderito con entusiasmo all’iniziativa mettendoci a disposizione i locali. Ci saranno amici, giornalisti, avvocati, magistrati, racconteranno chi era e il suo impegno antimafia.

Mi piacerebbe anche su Fb aprire una finestra su di lui e invito chi l’ha conosciuto o gli è stato amico a esprimere un pensiero, a raccontare particolari della sua vita che ci sfuggono. Un incontro nella piazza virtuale per dirgli quanto ci manca.

E di Giuseppe, del suo impegno e dell’inizio della sua attività giornalistica ci dà una significativa testimonianza Umberto Santino, fondatore e direttore del Centro di documentazione Peppino Impastato.

Giulio Francese

In Italia la giustizia si conquista, e ha i suoi prezzi

Un giorno compare al Centro Impastato un giovane che non ricordavo di avere incontrato prima. Ha un volto bellissimo, pensoso, intelligente. Si presenta: “Sono Giuseppe Francese, figlio di Mario”.

Di suo padre ricordavo perfettamente gli articoli e i servizi da pioniere del giornalismo investigativo: le inchieste sulla diga Garcia, sui corleonesi, sui prodromi di quella che da lì a qualche anno sarebbe stata la guerra di mafia più sanguinosa della storia. Ricordavo l’intervista a Felicia, la madre di Peppino Impastato che si era presentata assieme alla sorella Fara e al figlio Giovanni al Palazzo di giustizia per costituirsi parte civile.

«Mio figlio – diceva Felicia – non si è suicidato e non era un terrorista, è stato ucciso». E Francese, che di personaggi e fatti di mafia era un archivio vivente, le aveva chiesto di Cesare Manzella, il capomafia ucciso nel 1963, marito della sorella di Luigi, il padre di Peppino. E Felicia gli aveva risposto confermando quella parentela e con un «non capisco dove vuole arrivare».

I familiari di Peppino dicono a Francese che non hanno fatto alcun nome, ma qualche giorno prima, presentando un esposto alla Procura contro ignoti, avevano parlato dei Badalamenti. Felicia è ai primi passi su un percorso che la porterà ad essere più che una madre coraggio, un riferimento obbligato, accanto al figlio ucciso e al figlio vivo, nell’antimafia degli ultimi decenni.

Cominciamo a parlare e Giuseppe mi dice che le indagini sull’assassinio del padre sono ferme e non sa cosa fare per farle riprendere. Gli do qualche consiglio: un avvocato che non sia soltanto un buon professionista ma che ci metta testa e cuore, perché condivide le scelte di Francese.

E tenere viva l’attenzione, raccogliendo materiali, tempestando quotidianamente il Palazzo di giustizia. In Italia la giustizia si conquista, e ha i suoi prezzi. In costanza, determinazione, rischio. E qualche volta delusione. Gli dico: «È quello che abbiamo fatto per Peppino, ma per tuo padre il compito dovrebbe essere più facile, perché nessuno nega che sia stato un delitto di mafia».

Giuseppe è tornato altre volte e ha mostrato l’intenzione di calcare le orme del padre. Vuole scrivere, vuole essere giornalista, non fare il giornalista, tirocinante presso qualche redazione. Giornalista per passione, prima che per professione, la passione-missione per sottrarre al silenzio le persone dimenticate, dissotterrare i casi non chiusi o mai aperti.

Gli parlo di Cosimo Cristina, il giornalista trovato morto a Termini Imerese il 5 maggio del 1960, e gli do qualche informazione.

Così Giuseppe comincia a lavorare, instancabilmente, su due fronti: giustizia per il padre, memoria per ridare vita alle vittime dimenticate. Per suo padre otterrà, oltre che la verità storica che era già acclarata, la verità giudiziaria: sono stati i boss di quella che dopo le rivelazioni di Buscetta si chiamerà “cupola” a volere la morte di Francese, perché portava alla luce il volto coperto di quella che ora si chiamava “Cosa nostra”.

Come giornalista Giuseppe pubblica degli articoli che via via mostrano una maturità raggiunta, camminando con le sue gambe: su Cosimo Cristina, “suicidato dalla mafia?”, su Ugo Triolo, l’avvocato vicepretore onorario di Corleone, assassinato il 26 gennaio 1978 e totalmente dimenticato, su Leonardo Vitale, sottolineando che lo Stato le aveva sottovalutate ma Mario Francese aveva capito l’importanza delle sue dichiarazioni.

Ho tra le mani la documentazione che mi ha portato: il dossier del padre in fotocopia, e i suoi articoli, i suoi racconti. Il giornalista maturava lo scrittore. Ma a un certo punto ha deciso di andarsene. Come se avesse adempiuto il suo compito.

Umberto Santino, Fondatore e direttore del Centro di documentazione Peppino Impastato

Fonte: Giornalisti Italia 

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