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Dalla Chiesa uomo solo, accusato pure da morto

Luca Tescaroli * il . Forze dell'Ordine, Istituzioni, Mafie, Memoria, Politica, Sicilia

Era il 7 giugno 1996, una serata di venerdì, quando al termine di un’udienza nell’aula bunker di Caltanissetta del processo di I grado nei confronti dei responsabili della strage di Capaci, il maresciallo Cimino mi informò che l’imputato Calogero Ganci voleva parlarmi.

Poco dopo lo raggiunsi al carcere nisseno e iniziò a collaborare con la giustizia: ammise di aver partecipato a innumerevoli stragi e omicidi, che avevano segnato la storia di cosa nostra dagli inizi degli anni Ottanta, fra i quali, i plurimi omicidi, eseguiti il 3 settembre 1982, in via Isidoro Carini, a Palermo, del generale piemontese, divenuto prefetto di Palermo, Carlo Alberto dalla Chiesa, la giovane moglie, sposata in seconde nozze da nemmeno due mesi, Emmanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo.

Spiegò di aver guidato l’auto dalla quale Antonino Madonia aveva iniziato a sparare con il kalashnikov, crivellando di colpi Setti Carraro e la figura quasi leggendaria del generale, che aveva saputo combattere il terrorismo di sinistra, che apertamente aveva osato sfidare cosa nostra, venendo in Sicilia, che aveva conosciuto da capitano a Corleone e da comandante della legione carabinieri Sicilia. Negli interrogatori successivi, Ganci indicò i tredici componenti del commando operativo e le modalità organizzative ed esecutive dell’agguato. Il 12 luglio seguente, lo seguì nella scelta collaborativa il cugino Francesco Paolo Anzelmo. Senza di loro non si sarebbe mai giunti a individuare e a condannare i responsabili dei tre omicidi.

Frattanto, il 10 giugno 1996, la Corte di Cassazione poneva la parola fine al maxiprocesso, iniziato oltre un decennio prima, riconoscendo la responsabilità, quali mandanti, di Salvatore Riina e di altri sei componenti della commissione provinciale palermitana. La condanna di Antonino Madonia e di altro membro del commando (Vincenzo Galatolo) è divenuta definitiva, a seguito della sentenza del 22 giugno 2004 della Corte di Cassazione.

Il lungo percorso per giungere all’accertamento della verità è stato caratterizzato caratterizzato dal depistaggio del pregiudicato Giuseppe Spinoni (le cui spese legali venivano sostenute dai servizi segreti), che indirizzò le indagini verso criminali del tutto estranei (che furono persino arrestati) e che venne, poi, condannato per calunnia.

Dalla Chiesa era convinto che dovesse essere lo Stato a dettare la sua legge nel territorio dominio incontrastato della mafia e, perciò, si prodigò per attuare il presidio militare diffuso, aveva investigato sul delitto De Mauro, i suoi rapporti avevano alimentato gran parte del lavoro della commissione Antimafia sui politici siciliani ed era stato inviato nel capoluogo siciliano, a seguito dell’assassinio del segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, giungendovi proprio il giorno dell’assassinio, il 30 aprile 1982, quando la mafia corleonese era in ascesa sanguinaria e stava attuando il suo disegno egemonico sull’intera isola.

Sebbene siano trascorsi 40 anni da quell’eccidio, zone d’ombra offuscano la verità completa sia con riferimento alla coesistenza di specifici interessi all’interno delle istituzioni sia in ordine alle modalità con le quali il prefetto è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso senza i mezzi necessari, che non aveva, peraltro, omesso di richiedere ai vertici istituzionali.

La determinazione e i propositi di agire senza sconti per nessuno, pubblicamente esternati, erano stati avvertiti in tutta la loro pericolosità non solo da Cosa Nostra, ma anche da quella classe politica legata a filo doppio con tale organizzazione, che non aveva esitato a fare terra bruciata attorno a quell’uomo venuto dal Nord, non certo estraneo ai meccanismi del potere e a conoscenza di molti segreti che, se svelati, avrebbero potuto mettere in crisi influenti politici allora in auge.

A quel tempo la compagine governativa era guidata da Giovanni Spadolini e ministro degli Interni era Virginio Rognoni. Presidente della Regione siciliana era l’andreottiano Mario d’Acquisto. Gran parte del potere politico reale era nell’isola custodito da Salvo Lima, Vito Ciancimino e Aristide Gunnella. In quegli anni politici di spicco e blasonati intellettuali sostenevano che era ormai finita l’integrazione tra politica e mafia, parola quest’ultima pronunciata sempre con molta prudenza. Il maggiore potere economico – finanziario era detenuto dai costruttori Cassina, dai cugini Salvo di Salemi e dai cavalieri Costanzo di Catania.

La sua morte annunciata fece capire, per la prima volta, che la mafia era una questione nazionale e non un fatto folcloristico, perché penetrata profondamente nella realtà economica e politica nazionale.

Dieci giorni dopo, il 13 settembre 1982, il Parlamento, infatti, approvò il progetto di legge Rognoni-La Torre, che introduceva il reato di associazione mafiosa, le misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca, e una nuova regolamentazione volta a contrastare l’infiltrazione mafiosa negli appalti. Venne istituita una speciale commissione in seno al Csm. Si cominciò a comprendere quanto era compenetrata cosa nostra nel sistema del potere.

Dalla Chiesa aveva capito che il pentitismo era possibile tra le file di cosa nostra, che erano necessarie un’azione di coordinamento nazionale e la neutralizzazione degli interessi mafiosi nella pubblica amministrazione.

Se è vero che quel generale è divenuto un eroe nazionale, mai una vittima di mafia da morta è stata fatta oggetto di così numerose aggressioni, anche alimentata dalla sua accertata appartenenza alla P2, un’incauta adesione, a una realtà deviata, che ha attirato un valido uomo delle istituzioni.

* Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Firenze

Fonte: Il Fatto Quotidiano

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Con mafia e terrorismo non si può mai negoziare

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