Cascina Caccia. Il tempio dell’Antimafia al Nord, nel nome di un grande magistrato
Eccola qua “Cascina Caccia”. Dopo tanto tempo. Come ritardo da parte mia non c’è male.
Le truppe scelte del movimento antimafia guidate da Davide Mattiello fecero la loro prima irruzione in questo posto in provincia di Torino nel 2007. Le accolsero detriti e macerie. I padroni di casa a cui la cascina era stata confiscata più di dieci anni prima, il clan calabrese dei Belfiore, avevano spremuto la propria voglia di vendetta infierendo sulle cose. Via la caldaia, via i pavimenti, via le tegole. Via ciò che poteva consentire a una società civile sconosciuta di godersi quel casolare in mezzo alle colline di San Sebastiano da Po.
La legge per l’uso sociale dei beni confiscati era passata in parlamento all’inizio del ’96, e nel ’96 c’era stata la sentenza di confisca. Tirava aria di occupazione straniera per la cosca condannata per l’assassinio del giudice Bruno Caccia.
Mi guardo intorno, cerco con impazienza i segni di una vicenda che ha fatto della cascina un totem del movimento antimafia, meta di viaggi, di visite, e di volontariato che arriva per manutenzioni, ristrutturazioni, nuove coltivazioni. A destra e a sinistra morbide e verdissime colline di pace. Aceri, betulle, lavanda, rosmarino, tre blocchi che scendono giù uno dopo l’altro. E, dentro, travi che si incrociano sotto il tetto, scale, tegole, pavimenti in cotto. Mi sento la lumaca che arriva quindici anni dopo gli altri.
I narratori sono Paola Caccia, la figlia del giudice torinese ucciso il 26 giugno del 1983, e Andrea Zummo, che un quarto di secolo dopo fu tra i protagonisti di quell’occupazione a fin di bene.
Potenza del racconto. Grazie a Paola e Andrea i venti studenti e laureati dell’Università Statale di Milano possono intravedere qualcosa di un contesto storico che per loro è quasi archeologia. Possono intuire qualcosa di un giudice caduto sul campo, il primo e fin qui unico giudice ucciso dalla mafia nel Nord Italia. E riflettere su come si coltiva la memoria nel nostro Paese.
Il depistaggio partì subito. Gli ‘ndranghetisti fecero dei falsi comunicati di rivendicazione delle Brigate rosse. Credibili, visto l’impegno con cui il giudice le aveva combattute per anni, sempre messo in coppia sulla stampa con il più giovane sostituto Gian Carlo Caselli.
Ma la verità era ben diversa: forte della distrazione e rimozione del Nord, i clan calabresi avevano deciso di lanciarsi alla conquista del Piemonte e di eliminare le principali fonti di resistenza, come capì subito da Palermo, lui sì, il giudice Rocco Chinnici poche settimane prima di essere a sua volta ucciso con un’autobomba. Ancora recentemente, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, un alto magistrato torinese ha parlato di Caccia come di una vittima del terrorismo rosso. Quasi un diritto all’oblio regalato agli assassini.
Penso a tutto questo, alle indagini aggrovigliate, vedendo gli studenti che prendono appunti con gli occhi chini sulle agende o sui computer mentre Paola, da poco insegnante in pensione, racconta la storia da mal di testa del processo, nessun parente della vittima sentito dai magistrati per decenni.
Scendere nel grande scantinato con Gabriele, il giovanissimo gestore, è una sorpresa indicibile. Ci accoglie una grande foto-poesia: Guido Caccia che danza leggero in un cortile con la moglie Carla. A loro due insieme è dedicata la cascina. I ragazzi si incantano.
Lampeggia da una specie di registratore per gli ospiti la voce di Gian Carlo Caselli. Il ricordo di quando il terrorista di Prima Linea Michele Viscardi, in procinto di collaborare, gli spiegò come i magistrati torinesi fossero osservati dai loro aspiranti killer da una finestra mentre giocavano a tennis.
“Speriamo che non abbiano tenuto conto dei punti, caro Caselli”, gli disse il suo capo. “Se no te l’immagini che figura ci hai fatto?”. Ironia di un magistrato. Grande e indimenticabile.
* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 29/08/2022
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