Dopo 40 anni, il nostro grazie a dalla Chiesa
A Palermo, in via Carini, esattamente 40 anni fa, il 3 settembre 1982, la mafia uccideva, con la moglie Emanuela Setti Carraro e l’autista Domenico Russo, il generale Carlo Alberto dalla Chiesa.
Un “singolare personaggio scaltro e ingenuo, maestro di diplomazie italiane ma con squarci di candori risorgimentali” (così Giorgio Bocca nella storica intervista che il Generale rilasciò a Repubblica il 10 agosto, forse presagendo quanto stava per accadere).
Dalla Chiesa aveva contribuito in maniera decisiva alla sconfitta del terrorismo brigatista e aveva accettato con entusiasmo l’incarico – ancor più esposto e pericoloso – di Prefetto di Palermo, con la promessa (mai mantenuta) che gli venissero concessi i poteri e i mezzi necessari – anche sul piano del coordinamento – per un’efficace lotta alla mafia. Un eroe come non mai attuale, cui il nostro Paese dev’essere profondamente grato. Innanzitutto per il coraggio.
Sapeva che, insieme alla mafia, avrebbe avuto contro anche quel potente ambiente politico inquinato che in lui – capace, determinato e incorruttibile – vedeva una minaccia alla propria impunità. Quel mondo, Dalla Chiesa, lo conosceva bene. Ma sapeva anche che “ci sono cose che non si fanno per coraggio. Si fanno per poter continuare a guardare serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei propri figli” (così, nel libro Delitto imperfetto del 1984, il figlio Nando).
Andare a Palermo fu dunque una straordinaria lezione di coraggio nei fatti, non con le prediche, per di più rinunciando a scorte e sirene a rischio della propria stessa vita.
Il nostro Paese deve essere riconoscente a Dalla Chiesa anche per il modo in cui interpretò il suo ruolo in relazione alla società civile. Era convinto che se il problema della mafia viene vissuto dalla gente solo come una questione tra “guardie e ladri”, vince la mafia. Perciò, forte anche dell’esperienza dell’antiterrorismo, decise che “come nella lotta al terrorismo dobbiamo fare in modo che i piraña della mafia (quei pesci che spolpano un essere umano in pochi secondi) restino senza acqua. Fare in modo che boccheggino. E che la gente sia calamitata dalla credibilità dello Stato”.
Dalla Chiesa impiegò buona parte dei suoi cento giorni a Palermo per andare nelle scuole, tra gli operai dei cantieri navali e le famiglie di tossicodipendenti, “per far capire ai giovani che lo Stato è lì a offrirsi loro come punto di riferimento nelle loro aspirazioni di libertà. Creò, insomma, un’antitesi concreta al potere mafioso. Lui, lo Stato, spiegò loro che la mafia sfrutta e toglie dignità e che era ora che essi vi si ribellassero.
Orientò le coscienze, parlò alla gente, aggiunse alle qualità investigative un potenziale inedito: ‘fece’ cultura, fece ‘politica’ nel senso più nobile” (ancora Delitto imperfetto). Anche in questo caso, ecco un insegnamento di speciale attualità, a fronte del tentativo, da anni in atto, di “ingessare” la società civile, dimenticando che il suo coinvolgimento è sempre indispensabile per evitare l’isolamento, o peggio, derive delle istituzioni.
C’è ancora un’altra ragione di civile gratitudine. Il suo mandato a Palermo iniziò con i funerali di Pio La Torre, tra i più convinti sostenitori della designazione del Generale come prefetto di Palermo. Segretario regionale del Pci, da parlamentare La Torre aveva presentato un progetto di legge che prevedeva l’introduzione nel nostro ordinamento del delitto di “associazione mafiosa” e di misure specificamente mirate a colpire il potere economico della mafia.
Ebbene, l’assassinio di dalla Chiesa fu la spinta decisiva (anche se la più tragica) perché questo disegno diventasse effettivamente legge dello Stato.
La disperazione che si diffuse dopo l’omicidio La Torre e più ancora dopo la morte di dalla Chiesa si trasformò in irrefrenabile indignazione e rabbia (emblematica, al riguardo, la famosa scritta “Qui muore la speranza di ogni cittadino onesto” tracciata su un cartello in via Carini). Svegliandosi da un torpore di decenni, per la prima volta il nostro Paese riconobbe l’esistenza della mafia e inserì nel codice penale un articolo bis (il 416 bis) che cancellava finalmente la vergogna dei proclami secondo cui la mafia era soltanto un’invenzione di “comunisti” in vena di provocazioni.
Per la prima volta veniva messo a disposizione degli inquirenti uno strumento efficace, pensato con riferimento alla concreta e specifica realtà della mafia, grazie al quale il pool di Falcone e Borsellino poté costruire il primo maxi-processo, dimostrazione tangibile che la mafia esisteva e poteva essere sconfitta.
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 28/08/2022
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