’Ndrangheta a Milano. Anche i bambini sapevano chi erano i boss a Buccinasco
Quando dieci anni fa scrissi con Martina Panzarasa “Buccinasco. La ‘ndrangheta al Nord”, una delle presentazioni più suggestive capitò in una libreria.
Nel pubblico c’era infatti un gruppo di insegnanti che volle condividere con noi un’esperienza speciale: avere lavorato in una scuola media di Buccinasco. Raccontò ai presenti alcuni fatti importanti sfuggiti al nostro monitor sociologico. In particolare dandoci una informazione preziosissima, che da sola reggeva la tesi del libro.
Guardate, dissero gli insegnanti, che a Buccinasco tutti sapevano chi fossero i mafiosi. Lo sapevano anche i bambini. E non per modo di dire. Lo sapevano con esattezza perché veniva insegnato loro (e si insegnavano tra loro) quali fossero i figli dei boss, quelli con cui non conveniva litigare e con cui era meglio evitare i giochi di mano durante l’intervallo.
E i boss (“quelli di Platì”) erano da tutti inquadrati nelle proprie dinastie criminali. Chi aveva la ventura di vederne le case riferiva di trionfi di lusso e di pacchianeria, ma anche di grandi quadri d’autore, di cui poi si favoleggiava – sottovoce – tra le famiglie. Insomma: i politici negavano sdegnosamente l’esistenza della mafia nel paese, ma i bambini la conoscevano perfettamente e, perfettamente istruiti, badavano a tenersene alla larga.
È di queste contraddizioni che è intrisa la marcia trionfale della ‘ndrangheta in Lombardia.
E in questa idea mi sono rafforzato leggendo i compiti dei miei studenti della Statale di Milano di quest’anno. Lasciati liberi di mescolare i libri di studio, le lezioni del corso e le esperienze autobiografiche, hanno raccontato un paese dove la mafia la si vede da piccoli.
Primo caso. “L’elemento che forse più mi ha colpito ed illuminato dell’analisi del fenomeno mafioso è stata la menzione delle infiltrazioni della criminalità organizzata nella sfera sportiva, poiché, praticando io stessa attività agonistica da oltre x anni ho avuto modo di venire a contatto con società sportive dall’agire peculiare, società che nascevano apparentemente dal nulla, piene di risorse e con impianti sportivi del tutto invidiabili che però nel giro di pochissimi anni sparivano del tutto senza lasciare alcun segno”.
Secondo caso: “In quell’istante mi è tornato immediatamente alla mente un mio concittadino: Paolo Giorgetti, a cui peraltro è intitolato il largo in cui abito. Il mio primo incontro con la realtà mafiosa è stato proprio nella mia città, Meda, e proprio con la storia di questo ragazzo che frequentava il mio stesso liceo […]. All’età di 16 anni Paolo venne rapito e ucciso da un commando di ‘ndranghetisti. Il suo corpo carbonizzato fu ritrovato nel bagagliaio di un’altra auto…”.
Terzo caso: “Purtroppo l’azienda in cui lavorava mia madre fino a quando io ero alle scuole elementari si è trovata coinvolta, così come i dipendenti, in operazioni non prettamente legali; l’infiltrazione agiva come se avesse dovuto solamente intraprendere una riorganizzazione aziendale. Tuttavia così non è stato e nell’arco di 8-12 mesi parte dei dipendenti hanno lasciato l’azienda e in due anni è stato dichiarato il suo fallimento. Poco dopo sono stati processati e condannati alcuni presunti dirigenti […]”.
Vita assolutamente quotidiana, insomma. E si potrebbe continuare a lungo con i nostri esempi. Popolati anche di mafiosi che presidiano il bar con le loro tute sgargianti (“ma mica perché fanno ginnastica”), o del boss siciliano di gran lignaggio che offre paste ai ragazzini. Scene milanesi e scene dell’hinterland.
Mondi di scuola, di azienda, di sport, continuamente percorsi da zaffate di mafia senza che però nessuna le senta o le racconti. Solo i bambini di ieri chiamati a confrontare libri e lezioni con la loro libera memoria sanno e dicono. Gli altri no.
Davvero, come diceva il Piccolo Principe, “l’essenziale è invisibile agli occhi”…
* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 01/08/2022
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