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“La mafia è ancora in grado di ricattare lo Stato”

Rossella Guadagnini il . Corruzione, Giustizia, Mafie, Memoria, Politica, Società

Via d’Amelio trent’anni dopo, parla il fratello del giudice Paolo, Salvatore Borsellino: “Non c’è ancora una giustizia vera. I segreti inconfessabili vanno mantenuti a tutti i costi. La sentenza di martedì 12 luglio non cambia niente. Serve un’inchiesta sulla scomparsa dell’Agenda Rossa, scatola nera della strage”

“Sono venuto soprattutto per ascoltare perché ritengo che, mai come in questo momento, sia necessario che io ricordi a me stesso, e ricordi a voi, che sono un magistrato”. Queste le parole di Paolo Borsellino nel suo ultimo discorso pubblico, tenuto il 25 giugno 1992, in occasione del convengo organizzato nella Biblioteca Comunale di Palermo da MicroMega.

Oggi il fratello di Paolo, l’ingegner Salvatore Borsellino, fondatore del Movimento delle Agende Rosse, proprio da MicroMega lancial’allarme contro le ombre lunghe del passato e le contraddizioni del presente, che non permettono ancora di fare piena luce sugli avvenimenti di allora. “La memoria non deve essere solo un ricordo – dice – Memoria significa anche lotta per la verità e la giustizia. Perché a 30 anni da quei fatti non c’è ancora una giustizia vera. E, purtroppo, proprio in quest’ultimo periodo, si sta tornando indietro, con depistaggi che servono a impedire l’affermazione della verità”.

La stagione delle stragi siciliane del 1992, dopo il 23 maggio a Capaci in cui vennero assassinati Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato e i tre uomini della scorta, prosegue per altri 57 giorni fino all’eccidio di via Mariano D’Amelio a Palermo il 19 luglio, in cui furono uccisi il giudice Borsellino e i cinque agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Dopo tre decennifare il punto della situazione non è facile, tanto più per i familiari delle vittime a cui si chiede di tracciare un bilancio, seppure provvisorio, dei risultati di indagini e processi, di quanto hanno potuto realmente stringere in mano.

Salvatore Borsellino c’è più amarezza o più soddisfazione? Lei stesso ha avuto il merito di sollevare questioni irrisolte che, fin dagli inizi degli anni Duemila, sarebbero dovute apparire come morte e sepolte. E non soltanto riguardo agli eventi della sua famiglia, ma anche per quelle delle tante vittime di omicidi mafiosi che si sono verificati in Italia.

I processi si sono succeduti: dal Borsellino Primo siamo dovuti arrivare al Quater a causa dei depistaggi di Stato che i magistrati della Procura di Caltanissetta hanno avallato. Ad essere accusato era Vincenzo Scarantino, che invece con torture fisiche e psicologiche era stato costretto ad affermare il falso. Tanto che io stesso e l’avvocato Fabio Repici siamo stati gli unici come parte civile, oltre ai difensori dell’imputato, a chiederne l’assoluzione. E, ancora, sono stati rimandati alla Procura gli atti sulla sparizione dell’Agenda Rossa perché le indagini non sono state ritenute sufficienti dalla Corte.

Una sentenza importante, dunque, dopo tanti anni di illazioni e ambiguità. Lei però ha lanciato un’accusa precisa: ‘non c’è ancora una giustizia vera’. Cosa intende con queste parole?

Il Borsellino Quater è stato un fatto isolato, ha rappresentato una svolta. Doveva essere poi intrapresa una strada che non è stata seguita e non lo sarà, a mio parere, fino a quando le indagini resteranno in mano alla Procura di Caltanissetta, dalla quale sinceramente non mi aspetto nulla. L’ultima sentenza del 12 luglio scorso non cambia le cose: si è conclusa con la prescrizione per due dei tre poliziotti incriminati. La prescrizione sancisce la sconfitta della giustizia, significa che c’è voluto troppo tempo per portare avanti il processo. Non si può pensare che siano stati quattro poliziotti, gli ultimi anelli della catena, a ideare questa messa in scena e costringere Scarantino a mentire. Quindi è stata in effetti un’occasione perduta: bisognava indagare sulla catena di comando.

Poi è arrivato il colpo peggiore, l’appello del processo di Palermo sulla Trattativa Stato-mafia in cui sono stati condannati unicamente mafiosi, come Nino Cinà, mentre i funzionari dello Stato sono stati tutti assolti perché il fatto ‘non costituisce reato’. In realtà non esiste nel codice penale il ‘reato’ di trattativa. È vero. E una trattativa può essere anche ammissibile, quando ad esempio ci sono ostaggi in mano ai terroristi o infiltrati nelle bande criminali. Una trattativa sarebbe stata ammissibile – ed anche auspicabile – nel caso del rapimento di Aldo Moro, avrebbe potuto salvargli la vita. Ma in quel caso la politica non volle avviare contatti, perché a qualcuno interessava che lo statista venisse eliminato.

E adesso?

A mesi e mesi di distanza aspettiamo le motivazioni della sentenza, che evidentemente sono difficili da scrivere. Credo che la Trattativa sia stato il fattore accelerante della morte di mio fratello. Sono andati a bussare alla porta di Totò Riina per sapere cosa volevano i mafiosi. Hanno detto che ‘doveva servire per interrompere le stragi’, ma è servita a questo? No, anzi ha portato ad altre stragi sul continente – come diciamo noi siciliani – dirette a obiettivi diversi: beni storici e artistici, come nel ‘93 la Galleria degli Uffizi e la Torre del Pulci in via dei Georgofili a Firenze. Obiettivi che devono essere stati suggeriti da ‘menti raffinatissime’, dato che Riina probabilmente di questi monumenti non ne conosceva neppure l’esistenza.

Poi a Milano, sempre nel ‘93, c’è stata l’autobomba in via Palestro davanti alla Galleria d’Arte Moderna e a Roma nelle chiese di San Giorgio in Velabro e San Giovanni in Laterano. Se si distrugge il patrimonio artistico dello Stato, esso non può essere ricostruito. Tutto ciò fino al fallito attentato dello stadio Olimpico a Roma: ‘i timer non hanno funzionato’ hanno asserito dei collaboratori di giustizia. Ma quando i timer non funzionano una volta, funzionano la volta successiva. Invece no, per fortuna non ci fu una volta successiva.

Che ne pensa?

A mio avviso non c’è stata un’altra esplosione perché intanto la Trattativa si era conclusa e c’era un nuovo capo al posto di Totò Riina, Bernardo Provenzano. La Cupola era protetta per almeno un decennio e anche la latitanza di Provenzano, così come oggi viene protetta quella di Matteo Messina Denaro. Il senso di tutto ciò è che ancora oggi la mafia è in grado di ricattare lo Stato, come avviene fin dai dai tempi di Portella della Ginestra. Ci sono dei segreti inconfessabili che vanno mantenuti a tutti i costi.

Forse è una verità quanto ha dichiarato Salvatore Baiardo, l’ex gelataio di Omegna, custode della latitanza di Messina Denaro. Lui non è un collaboratore di giustizia. È qualcuno che lancia messaggi cifrati: ha raccontato che c’è stata una riunione tra i vertici dei servizi segreti e quelli della mafia, a cui è stata data una copia dell’Agenda Rossa di Paolo. Sono convinto sia un pegno per il rispetto di quei patti scellerati contratti nel corso della Trattativa tra pezzi dello Stato e pezzi della mafia. La realtà a volte è peggiore della fantasia.

Che accadde in quel periodo?

Stava per scadere il decreto sul 41 bis, l’ergastolo ostativo, le misure sui collaboratori di giustizia. Una misura studiata da Giovanni Falcone mentre era a Roma, al Ministero di Giustizia, ma venne presentata dal governo soltanto dopo la strage di Capaci. Già allora Roberto Scarpinato aveva detto che si trattava di un decreto ‘sporco di sangue’: da anni i magistrati aspettavano leggi come quelle per avere armi contro la mafia; ma c’era voluto l’assassinio di Falcone per approvarlo. In Parlamento era già pronta una maggioranza garantista che avrebbe bocciato la normativa. Occorse la strage di via D’Amelio affinché il 7 agosto – a un solo giorno di distanza dalla sua scadenza e sull’onda dell’indignazione popolare e della rivolta della parte sana della politica dopo le bombe – il provvedimento diventasse legge dello Stato.

È da sottolineare inoltre che questi erano i punti principali di quel famoso ‘papello’ presentato da Totò Riina come un diktat per arrivare alla pax mafiosa. La strage di via D’Amelio quindi non fu funzionale alla mafia: non era alla mafia che interessava compierla in quel momento; anzi si rivelò un cattivo affare dato che proprio a causa sua venne approvato il decreto antimafia.

E valuto l’Agenda Rossa un pegno, altrimenti non si comprende la ragione per cui – a 30 anni di distanza – venga pagato un debito non ancora assolto. Sono i messaggi che i fratelli Graviano lanciano dal carcere. Non è pensabile che, dopo tre decenni, si vogliano abolire quelle leggi date alla magistratura per contrastare con comprovata efficacia la criminalità organizzata. Tra poco numerosi mafiosi verranno messi fuori dal carcere e accederanno ai benefici di legge anche senza aver collaborato con i giudici, grazie a una politica connivente. Dalla mafia si esce soltanto perché morti o perché si decide di collaborare con la giustizia: in nessun’altra maniera.

Cosa la indigna di più?

Che malgrado sia passato tanto tempo non sia ancora stato istruito un processo sulla scomparsa dell’Agenda Rossa, evento che resta avvolto nel più fitto mistero.

L’agenda rossa è il segno di riconoscimento del Movimento civile che lei ha fondato nel 2007: come mai l’ha scelta come simbolo?

È la scatola nera di quella strage. L’hanno presa gli stessi assassini di Paolo. Abbiamo recuperato e messo insieme per anni gli spezzoni di pellicola che sono stati girati in via D’Amelio subito dopo l’esplosione, per cercare di identificare chi fosse presente sul luogo dell’attentato e cosa facesse. E siamo anche riusciti a individuare un personaggio, che non era mai stato chiamato come testimone: si tratta di Emilio Borghini, allora tenente colonnello (oggi generale in pensione) verso la cui auto – ferma in via dell’Autonomia siciliana – si dirige il capitano Giovanni Arcangioli (oggi colonnello dei Carabinieri). Quest’ultimo – la cui deposizione è stata costellata da ‘mi sembra’ e ‘non ricordo’ – si era appena allontanato dal punto in cui era saltata in aria la Croma blindata di Paolo, portando via la sua borsa. Appare chiaramente nel filmato. Quando lo abbiamo proiettato in udienza alla Corte di Caltanissetta, nel Borsellino Quater, i giudici si sono alzati e se ne sono andati.

Crede che si ritroverà mai l’originale? 

Sicuramente l’Agenda non è stata distrutta. Sarà nei sotterranei di qualche palazzo romano. Difficile che venga fuori. Forse tra 50 anni.

Ha sostenuto che “l’Italia non meritava Falcone e Borsellino”: perché questo giudizio?

È così: non li meritava. Ma loro hanno scelto coscientemente di sacrificare la propria vita per onorare il giuramento fatto allo Stato. Sono convinto che Paolo sapeva perfettamente quale fosse il suo destino, a cosa andasse incontro. A tre giorni dall’attentato lo pregai al telefono: “Paolo vieni via da Palermo, fatti trasferire. Questi qui ti ammazzano”. Mi rispose di no e si alterò perfino con me. Alla moglie Agnese confidò “quando mi uccideranno sarà per mano della mafia. Ma saranno altri ad aver voluto la mia morte’. Ancora non sappiamo chi ha premuto il pulsante del dispositivo usato per attuare la strage, né da dove l’abbia attivato. Finora sono stati assicurati alla giustizia solo una parte degli esecutori. Nessuno di quegli ‘altri’ di cui parlava Paolo. La giustizia non è ancora arrivata a loro e io ho perso la speranza di vedere che ciò avvenga negli anni che mi restano da vivere.

Sua nipote Fiammetta, figlia minore di Paolo, ha rivolto dure accuse ad alcuni giudici di allora e alla magistratura di oggi: condivide il suo punto di vista?

Fiammetta appoggia le tesi dei Ros. Ma il dossier Mafia-appalti non può essere la causa scatenante della strage, né della sua accelerazione: Paolo se ne stava occupando, sì. Tuttavia la fretta nell’organizzazione dell’attentato è dovuta al fatto che mio fratello non soltanto non doveva andare a deporre a Caltanissetta, ma costituiva un ostacolo insormontabile per il procedere della Trattiva Stato-mafia. La storia dell’incartamento Mafia-appalti ha rappresentato il primo depistaggio nelle indagini sulla strage.

Cosa pensa di quanto sostenuto dall’ex giudice Roberto Scarpinato a proposito dei legami tra mafia, stragismo ed estrema destra?

Scarpinato non è solo un magistrato, ma anche uno storico: adesso che non ha più i vincoli professionali di prima, credo possa portare contributi molto significativi alla comprensione dei fatti accaduti.

Nell’ultimo discorso pubblico tenuto alla Biblioteca Comunale di Palermo, suo fratello fa cenno a ‘un giuda’ e lascia trapelare l’urgenza che aveva di riferire quanto sapeva ai giudici.

Con quelle parole e chiedendo di deporre a Caltanissetta, Paolo ha firmato la sua condanna a morte.

E dice anche di cose che lui sa, che gli hanno fatto pensare “che era finita una parte della mia e della nostra vita”. A cosa si riferiva?

Alla morte di Falcone. Se c’era un ‘fratello’ di Paolo, questi era Giovanni Falcone. Quando parla dei suoi diari è un punto importante: Paolo afferma che avendoli letti mentre era ancora in vita Giovanni Falcone, lui era in grado di giudicarne l’autenticità. Descrivevano uno scenario internazionale molto complesso e impressionante, con riferimenti in particolare all’organizzazione paramilitare Gladio e alla stessa Cia che l’aveva promossa in Italia.

Riforma della Giustizia: la preoccupa l’abolizione dell’ergastolo ostativo, l’allentamento del 41bis e simili altri ammorbidimenti avanzati per i mafiosi condannati?

Trent’anni dopo aver ucciso Falcone e Borsellino, con la scomparsa dell’ergastolo ostativo stanno per dar loro il colpo di grazia definitivo. E pagano l’ultima e più pesante cambiale sottoscritta nel corso della Trattativa Stato-mafia.

Ancora oggi, a 80 anni, lei continua a girare per il Paese e incontrare giovani e studenti. Come fa?

Mi ha aiutato il web. Mi muovo piuttosto male in questo periodo, ma da aprile a giugno ho fatto praticamente un incontro al giorno con le scuole di tutta Italia. Anche se le gambe mi reggono poco sono stato ‘presente’ online da Bolzano a Barcellona Pozzo di Gotto.

Come valuta la proposta di tutelare quell’immagine di Falcone e Borsellino che si scambiano un’occhiata d’intesa mentre chiacchierano? È stata avanzata da Michele Anzaldi (di Iv) al fine di fare riconoscere dal governo il suo valore storico.

Mi pare giusta. Il fotografo Toni Gentile non ha mai ricevuto i diritti d’autore per quello scatto tanto famoso e riprodotto.

Le celebrazioni delle due stragi sono ormai indissolubilmente legate l’una dall’altra: è un bene o un male?

Il punto di vista di Maria Falcone è molto diverso dal mio. Lei incentiva celebrazioni istituzionali che io non amo affatto.

Cosa organizzerete a Palermo come Agende Rosse per il trentennale?

L’albero della memoria, l’ulivo che l’anno scorso ha goduto di tre mesi di presidio civile, la ‘Scorta della Memoria’, quest’anno viene sorvegliato fino al giorno della strage, mentre la commemorazione sarà contenuta. Invito tutti a non fare passerelle. Non ci saranno palchi né dibattiti. Nella celebrazione del 23 maggio scorso hanno trionfato i megafoni della retorica e ha parlato anche chi, come disse mio fratello tanti anni fa, ha perso il diritto di parlare. Per il 19 luglio noi Agende Rosse terremo una manifestazione all’insegna della sobrietà: la chiameremo ‘La voce del silenzio’: a inutili amplificazioni preferiamo rispondere tacendo.

Ma ci sarà la musica. La musica al posto del boato della strage e il silenzio contro i discorsi vani. Sulla pedana centrale, allestita dove il tritolo di Cosa nostra distrusse le vite di Paolo e dei suoi ‘angeli’ si esibirà il violoncellista Luca Franzetti, con l’esecuzione delle Sei Suites per violoncello di Bach, in particolare la numero 2 ispirata alla rabbia, e la3 all’amore. Sono entrambi sentimenti che mi hanno tenuto in piedi in questi 30 anni.

Saranno portate in corteo delle lenzuola e poi appese alle transenne in via D’Amelio, in ricordo di quelle stese dai palazzi di Palermo nel ‘92, che appartennero a un tempo di protesta durissima per il sangue versato. Stavolta sono state decorate con disegni e scritte significative per richiamare i temi principali di quest’ultimo decennio, a partire dai depistaggi. Le hanno realizzate i gruppi territoriali delle Agende Rosse.

Noi intanto ne immaginiamo alcune: legalità, giustizia, verità. Non parole al vento ma bandiere.

Fonte: MicroMega 

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