A 30 anni dalle stragi del 1992. Come è cambiata la Sicilia e l’importanza della memoria
La storia del nostro Paese nel ventennio compreso tra la seconda metà degli anni ‘70 e la prima metà degli anni ‘90 è stata caratterizzata da gravissimi attentati a uomini delle istituzioni e non solo, [1] considerati troppo pericolosi per la loro intransigenza morale e professionalità nell’ambito investigativo e giudiziario o in altri settori di competenza (per es. preti, giornalisti e imprenditori), frequentemente commessi in momenti storici in cui le organizzazioni mafiose si trovavano in difficoltà ed avvertirono l’esigenza di riaffermare il proprio potere egemonico nel territorio, facendo ricorso, spesso come extrema ratio, all’assassinio sistematico di quanti con il loro quotidiano impegno ed il rifiuto di ogni condizionamento, avevano dimostrato di aver fatto una scelta chiara ed irreversibile a favore dei valori della legalità e della giustizia che costituiscono il fondamento etico della democrazia in uno Stato costituzionale di diritto.
In questo contesto non può dubitarsi che le stragi di Capaci (23/5/1992) e di via D’Amelio (19/7/1992), di cui quest’anno ricorre il 30° anniversario, per le eclatanti ed efferate modalità di esecuzione e per le figure emblematiche delle vittime, hanno segnato il più alto livello di attacco militare allo Stato da parte di “Cosa Nostra” ed il momento più drammatico di una lucida strategia terroristica articolata in quegli anni dalla predetta organizzazione per riaffermare il primato e la intangibilità del suo potere criminale, sia rispetto alla società civile e alle istituzioni democratiche che all’interno della stessa associazione criminosa.
I fatti nuovi dopo le stragi del 1992
Sentimenti contrastanti come la rabbia, la disperazione, il senso di disfatta, voglia di cambiamento, sfiducia e aperta ribellione si intrecciarono, a volte in un insieme indistinto, sia tra i cittadini che tra i magistrati e le forze di polizia.
La enormità stessa della violenza ha tuttavia prodotto incrinature profonde nel consenso di cui la mafia ha goduto e gode tuttora, crisi di antiche alleanze e aperte ribellioni al potere mafioso.
Ma soprattutto si sono verificati fatti nuovi e rilevanti, che hanno smentito le disperate e rassegnate parole profferite in un momento di sconforto perfino da un uomo come di Antonino Caponnetto mentre in via d’Amelio, salendo in macchina e stringendo paternamente con le sue mani quella del giornalista che teneva il microfono: “è finito tutto, è finito tutto”; di quelle parole Caponnetto ebbe quasi a scusarsi qualche tempo dopo ammettendo che “aver ceduto a questo momento di debolezza fu un errore enorme”.
I fatti nuovi, molto schematicamente, possono essere così riassunti:
1. La consapevolezza delle dimensioni e della gravità del fenomeno mafioso risulta ora acquisita alla coscienza collettiva dell’intero paese, con particolare riferimento ai seguenti punti:
a) gli effetti distorsivi della economia illegale su quella legale e l’infiltrazione nei mercati e nel territorio del nord del paese che a torto per lungo tempo erano stati ritenuti immuni dalla contaminazione di quel grave fenomeno;
b) i rapporti con le istituzioni e con quella che ormai viene comunemente indicata come l’area grigia, intendendo con tale espressione quei settori della vita sociale ed istituzionale che si prestano ad ambigue collusioni ed a rapporti osmotici e simbiotici di tipo clientelare tra ampi strati della popolazione di diverso livello sociale;
c) la consapevolezza che tale area è stata alimentata – rendendola sempre più funzionale a perpetuare storicamente una rete di rapporti e relazioni esterne delle organizzazioni mafiose – da un elevato tasso di inefficienza e corruzione dell’apparato amministrativo.
2. Una mobilitazione senza precedenti della società civile.
3. Una capacità di rinnovamento della magistratura ed una crescita dei risultati della sua azione repressiva.
4. La ormai diffusa consapevolezza che ciò che rende peculiare il fenomeno mafioso ed esclude in radice l’ipotesi di una “convivenza” con la mafia stessa, evocata alcuni addietro da un ministro dei lavori pubblici, è il fatto che esso porta con sé messaggi, contenuti e conseguenze che aggrediscono non solo le regole e la trasparenza dell’economia, ma i principi fondamentali su cui si regge la democrazia.
La reazione dello Stato
Lo Stato ha risposto con grandi processi, conclusi con sentenze che hanno inflitto pesanti condanne – a partire da quella della Suprema Corte Cassazione del 30/1/1992 n.80, che ha sancito alcuni principi ermeneutici fondamentali, confermando le significative acquisizioni investigative del maxiprocesso sulla struttura di “cosa nostra” e le sue regole di operatività – e con una legislazione del c.d doppio binario, articolata in vari punti qualificanti, che hanno inciso sulla capacità di contrastare efficacemente il fenomeno mafioso, fra i quali:
a) l’instaurazione di un regime carcerario duro e distinto per gli indiziati mafiosi per interrompere i legami operativi con l’organizzazione di appartenenza e ridurre le possibilità di contatto dentro il carcere con altri affiliati alla stessa organizzazione o altre alleate nonché con l’esterno;
b) introduzione di una legislazione che prevede trattamenti premiali per i collaboratori di giustizia, con una organica disciplina del sistema di protezione per i collaboratori di giustizia ed i testimoni di giustizia;
c) introduzione attraverso la legge n.356/1992 di casi specifici di confisca (art.12 sexies introdotto dal D.L. n. 306/1992) oltre a quelli già previsti dalla legge Rognoni La Torre in materia di misure di prevenzione e dall’art. 416 bis comma 7 c.p. con la possibilità di concrete forme di aggressione ai patrimoni di provenienza illecita;
d) istituzione delle procure distrettuali antimafia e di quella nazionale (L. 29/1/1992 n.8) operante dal 1993 e della corrispondente figura del GIP distrettuale;
e) previsione di specifiche e più rigorose disposizioni processuali, spesso di tipo derogatorio rispetto alla disciplina ordinaria, applicabili solo ai processi di criminalità organizzata di tipo mafioso.
Sotto tale ultimo profilo appare opportuno sottolineare che sebbene la recrudescenza della criminalità mafiosa non abbia compromesso la stabilità del nostro sistema democratico e non abbia prodotto pericolosi arretramenti sul piano della tutela dei diritti fondamentali e dei diritti umani, deve tuttavia riconoscersi che la specificità e la gravità del fenomeno mafioso hanno imposto scelte legislative orientate verso una disciplina distinta delle disposizioni processuali applicabili ai delitti attribuibili alla criminalità organizzata di tipo mafioso, introducendo nel sistema processuale una legislazione speciale – che è cosa diversa dalla legislazione eccezionale – articolata nella previsione di tutta una serie di disposizioni derogatorie rispetto alla disciplina ordinaria che si sono concretizzate, come è logico che fosse, in norme più rigide e sotto altro profilo in una sorta di “facilitazione probatoria” in relazione al livello di gravità del quadro indiziario richiesto, per esempio, per la adozione di misure cautelari o altre misure limitative o invasive di diritti e libertà costituzionalmente tutelate (per es. in materia di intercettazioni telefoniche, di durata delle indagini preliminari, di obbligo di notificare avvisi che determinano una discovery con vulnus per la segretezza delle indagini ed altri istituti processuali).
La mancanza, ormai da molti anni, di fenomeni eclatanti e reiterati di violenza come quelli sopra ricordati, denota soltanto che le organizzazioni mafiose hanno mutato la loro strategia e che ad un nuovo ritrovato equilibrio dei loro assetti organizzativi interni e relazionali con altri gruppi si è aggiunta la esigenza di privilegiare la c.d strategia di “sommersione” molto più funzionale alla gestione dei loro traffici illeciti e dei connessi interessi economici spesso gravemente compromessi dalla incisiva reazione degli apparati repressivi inevitabilmente attivati da gravi fenomeni di violenza.
No al racket, no alle estorsioni
Credo però che i cambiamenti più significativi innescati dalla stagione stragista siano costituiti da quella che è stata definita la rivolta morale della popolazione siciliana, da una significativa crescita della società civile e la svolta etica della imprenditoria sana.
La diffusa presa di coscienza che attraverso il racket la criminalità penetra all’interno del circuito economico, distorcendone i meccanismi e imponendo la propria partecipazione al capitale dell’impresa per potere riciclare i notevoli flussi di denaro provenienti da traffici illeciti, ha favorito coraggiose scelte per opporsi alla criminalità che, gestendo (direttamente o indirettamente) un’impresa, sfrutta quella “rendita da posizione” che le deriva dall’utilizzo del metodo mafioso nell’organizzazione aziendale.
Il pizzo funziona da bene rifugio: è e resta il segno del dominio, rappresenta in modo plastico il potere della mafia che impone una tassa e per questo assume un enorme significato simbolico perché si contrappone al potere impositivo fiscale dello Stato.
Per una conferma di questa funzione simbolica del controllo sociale e del territorio è opportuno segnalare che nel corso di una intercettazione telefonica tra due boss mafiosi siciliani un interlocutore diceva all’altro: “non importa quanto purché paghino tutti”.
Oggi è molto più chiaro che il pagamento del pizzo assume il valore di un riconoscimento implicito del potere dell’organizzazione criminale e, come tale, determina la soggezione della vittima nei confronti di quel potere; oggi le imprese possono beneficiare della lunga e concreta esperienza dell’associazionismo antiracket e di una diversa sensibilità e professionalità delle forze dell’ordine e dell’autorità giudiziaria.
Il 29/8/1991 è stato ucciso Libero Grassi e fino a quel momento la resistenza alla violenza mafiosa era un fatto individuale e privato.
La pubblicità della resistenza avrebbe dovuto costituire una assicurazione ma ciò non è stato per Grassi perché l’isolamento ha svolto un ruolo decisivo per la sua morte; però, come è scritto nella sentenza di condanna dei responsabili del suo assassinio, Grassi è morto da uomo libero come il nome che portava.
Ecco perché oggi è ormai chiara a tutti la necessità di sostenere la risposta collettiva per sviluppare la consapevolezza che pagare rafforza la mafia e isola chi resiste.
Dopo il sacrificio di Libero Grassi, nel solco tracciato dalla carta costituzionale, che all’art.41 stabilisce che l’iniziativa economica privata è libera ma che essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà alla dignità umana, si è oggi sempre più affermata e diffusa una nuova cultura dell’impresa che consenta di qualificarla come “impresa etica” o “impresa sociale”.
Le associazioni antiracket oggi svolgono un ruolo importante perché:
a) aiutano le vittime ad uscire dall’isolamento che le rende particolarmente vulnerabili;
b) aiutano a diffondere nel tessuto sociale la cultura della legalità, della solidarietà e del senso di appartenenza ad una comunità, favorendo l’esercizio dei diritti di cittadinanza e la partecipazione democratica, compromessa dalla violenza mafiosa che è negazione della libertà;
c) rappresentano un elemento di collegamento tra lo Stato e la società civile svolgendo una opera di sostegno per tutti coloro che decidono di sporgere denunzia;
d) stimolano il c.d. consumo critico, come nel caso del “Comitato AddioPizzo”;
e) hanno dato impulso al fenomeno della costituzione di parte civile non solo nei confronti degli imputati di associazione mafiosa ma anche nei confronti dei soggetti imputati di favoreggiamento per avere taciuto i nomi degli estortori negando di avere subito estorsioni nonostante la notevole quantità di elementi di prova raccolti.
La mobilitazione della società civile
Ma il fenomeno nuovo e più rilevante che si è prodotto dopo le stragi è costituito, a mio avviso, dalla consapevolezza, ormai acquisita alla coscienza collettiva, che non è possibile contrastare efficacemente una sanguinaria e pericolosissima criminalità organizzata, come la mafia e la ‘ndrangheta, senza il coinvolgimento e la mobilitazione della società civile, ciò che ha conferito un nuovo impulso ai progetti di educazione alla legalità nelle scuole.
Da molti anni, pertanto, non riesco a sottrarmi a quello che ormai, dalle stragi del 1992, considero un vero e proprio impegno morale, una forma di militanza politica in difesa della dimensione etica della legalità: andare nelle scuole per incontrare gli studenti, non per fare una lezione ma per una testimonianza ed una parola di speranza nella prospettiva di contribuire alla crescita culturale e politica delle giovani generazioni.
L’importanza di tali confronti con gli studenti era già stata colta, fin dagli anni ottanta, dal compianto consigliere istruttore di Palermo, Rocco Chinnici, rimasto vittima della strage di via Pipitone Federico il 29 luglio 1983, che ho avuto l’onore di conoscere quando nel luglio del 1978, giovane uditore giudiziario, venni affidato per un periodo di tirocinio all’allora giudice istruttore di Palermo, Paolo Borsellino, che me lo presentò quale capo di quell’ufficio.
Alla base di questo impegno morale e sociale v’è il profondo convincimento, sempre più maturato nel corso degli anni, che sia ormai acquisita alla coscienza collettiva la consapevolezza che la risposta giudiziaria non costituisce una soluzione taumaturgica del problema della criminalità organizzata, ma occorre altro e cioè una crescita culturale e politica complessiva della società civile e delle istituzioni.
Il valore della memoria
In questa prospettiva di crescita della società civile desidero sottolineare l’importanza della “memoria” per dissentire dall’opinione di chi ritiene che le commemorazioni di stragi ed in genere di attentati mafiosi, si risolvono in una sterile forma di retorica senza alcuna utilità pratica se non quella di costituire una passerella per uomini politici ed uomini delle istituzioni.
Voglio qui ribadire, come ho già scritto in questa rivista in un breve ricordo di Rosario Livatino, che la “memoria” non deve essere solo un momento rievocativo o commemorativo ma un modo per riscattare storicamente e moralmente quel processo di rimozione collettiva del fenomeno mafioso, ma anche di altri fenomeni, come la shoah, che ci rende tutti colpevoli.
La memoria serve soprattutto a respingere tutti i tentativi di negazionismo e a favorire per contro un autentico processo di conoscenza di certi fenomeni che deve diventare a sua volta coscienza critica per contrastare quotidianamente, soprattutto culturalmente, il fenomeno mafioso.
Ma proprio la memoria, quale importante momento e strumento di analisi critica, mi induce a condividere con chi avrà la pazienza di leggere queste mie riflessioni, le emozioni provate nel 2014 quando, per la prima volta, ho visitato la “Casa Memoria” di Peppino Impastato, a Cinisi, divenuta meta di un vero e proprio pellegrinaggio della legalità e dell’antimafia.
La casa, con le tipiche persiane dei nostri paesi a livello della strada, che fungono anche da porta di ingresso, era aperta a chiunque volesse entrarvi per visitarla. Mi ha ricordato le tipiche modalità con cui dalle nostre parti, in Sicilia, si tengono i lutti: con la porta di casa aperta, appunto; e questa immagine mi è stata evocata in particolare dal vedere un gruppo di visitatori seduti sui divanetti posti ai lati delle pareti appena entrati nella modesta abitazione.
Qui, però, il “lutto” aveva una dimensione collettiva ed il lento processo storico della sua elaborazione ha già prodotto un risultato impensabile venti anni fa: il riscatto di una comunità da una situazione di azzeramento della propria dignità di cittadini. Questo riscatto era chiaramente espresso da quelle persiane spalancate al vento nuovo della legalità, mentre per anni, quando Peppino conduceva la sua coraggiosa battaglia contro la mafia, probabilmente rimanevano chiuse o al più socchiuse, come era tipico nei paesi della nostra terra, quasi a simboleggiare la paura e la chiusura, soprattutto culturale, di una comunità atavicamente rassegnata, al più, a “sbirciare” sugli eventi, così perpetuando quella situazione di assoggettamento e di omertà sulla quale il potere mafioso ha fondato il clima di intimidazione diffusa che gli ha consentito di prosperare.
Di fronte, a “cento passi”, ho visitato la ex casa di “don” Tano Badalamenti. su tre piani, con un balcone che si affaccia sul corso principale, ben più “sontuosa”, con scala interna fornita di ringhiera di legno e gradini in marmo.
La prima cosa che mi ha colpito è il contrasto tra la “ricchezza” della modesta casa di Peppino con le pareti ed i mobili pieni di foto ed oggetti, soprattutto libri, a lui appartenuti ed il vuoto di quella del boss: sì perché la sua ex abitazione, ormai confiscata, era completamente priva di mobili e suppellettili, come vuota di valori era la sub-cultura che esprimeva il suo potere mafioso.
Per un momento mi sono chiesto: e se la si lasciasse in questo stato a simboleggiare e perpetuare il contrasto tra lo squallore di una cultura di morte e la imperitura vitalità della casa di Peppino? Ma forse è meglio, mi sono detto, che lo Stato si riappropri della propria “sovranità” e riaffermi, anche simbolicamente, la superiorità culturale della legalità, trasformando quell’immobile in luogo di eventi e iniziative che consentano a quella comunità di sentirsi partecipe di uno sforzo collettivo per la rifondazione della nostra Sicilia sulla base di valori nuovi e condivisi.
La scuola e l’etica della responsabilità
Sono profondamente convinto che la scuola sia l’unico laboratorio culturale che può concretamente promuovere la ricostruzione, la conservazione e la promozione di questa memoria collettiva; che possa favorire in ciascuno di noi la scelta irreversibile in favore di valori e principi in nome dei quali tanti servitori dello Stato e cittadini comuni hanno sacrificato la loro vita e, quindi, la consapevolezza di poter contribuire, ciascuno con il proprio quotidiano impegno in difesa della legalità, alla costruzione di una nuova etica collettiva e di una nuova etica pubblica.
La scuola è l’unico laboratorio culturale che può spezzare la logica di quel circuito perverso fondato sull’etica dell’ordine e dell’obbedienza acritica, che imperano all’interno della famiglia mafiosa e che perpetuano il modello culturale della sottomissione delle mogli e dei figli al capo famiglia, segnandone ineluttabilmente le scelte di vita e quindi il futuro.
All’etica dell’ordine e dell’obbedienza dobbiamo saper opporre l’etica del discorso e della responsabilità.
Il ruolo delle donne
In questo mutato contesto culturale non possono essere sottaciuti il ruolo antagonista della donna e le sue enormi potenzialità di emancipazione, perfino sul piano del contrasto culturale alla criminalità organizzata di tipo mafioso, comunque localmente denominata, con particolare riferimento alla mafia ed alla ‘ndrangheta, per la loro forte connotazione familistica.
Mi sembra plausibile affermare, sulla base della mia lunga esperienza professionale in Sicilia e di quella, più breve ma comunque ultradecennale, in Calabria, che il ruolo della donna all’interno della famiglia mafiosa è non poco mutato, nel senso di una sua sempre più forte partecipazione ai processi decisionali.
Tradizionalmente, infatti, la donna appartenente a famiglie di mafia e di ‘ndrangheta ha svolto un delicato ruolo di collegamento con l’esterno attraverso il trasferimento di comunicazioni ed ordini tra il padre o il marito detenuto e gli altri associati.
In particolare, molteplici acquisizioni investigative hanno consentito di accertare lo svolgimento di un ruolo di intermediazione in relazione a disposizioni impartite da stretti congiunti detenuti, soprattutto nel settore estorsivo, ovvero di specifiche attività di intestazione fittizia di beni e reimpiego dei capitali illeciti del gruppo criminale.
I successi investigativi degli ultimi anni hanno prodotto importati risultati, che si possono qui sommariamente descrivere:
– hanno notevolmente accresciuto la fiducia dei cittadini nelle istituzioni anche sotto il profilo della percezione di una significativa presenza dello Stato che nel Sud era storicamente visto come una entità nemica o comunque distante e disinteressata;
– hanno favorito nuove collaborazioni;
– hanno gravemente incrinato il mito della invulnerabilità e invincibilità della mafia e della ‘ndrangheta;
– hanno messo in crisi un modello culturale fondato sulle regole dell’ordine e della sottomissione delle donne ed il loro ruolo tradizionale di trasmissione di quei disvalori, favorendo coraggiose scelte collaborative da parte di appartenenti a famiglie mafiose e ‘ndranghetiste: la collaborazione di Giuseppina Pesce, di Rosarno, ne costituisce l’esempio più eclatante, al pari dell’importante contributo offerto dalla testimone di giustizia Maria Concetta Cacciola, la quale ha reso ai magistrati rilevanti dichiarazioni su gravi fatti di sangue consumati nel territorio di Rosarno.
In seno a “cosa nostra” si è registrata l’importante collaborazione di Giovanna Galatolo, figlia dell’esponente di spicco della famiglia dell’Acquasanta di Palermo, Vincenzo Galatolo, condannato all’ergastolo per la strage di Pizzolungo.
Le predette hanno saputo prendere le distanze da un certo modello culturale di moglie e madre e, attraverso il ripudio della logica della obbedienza acritica e della sottomissione al capo-famiglia, hanno riscattato la propria dignità di donna, tradizionalmente destinata a trasmettere ai figli disvalori e modelli culturali arcaici, decidendo che ai figli si può e si deve finalmente assicurare un futuro diverso rispetto a quello che discende dalla assoluta ineluttabilità dalle scelte criminali dei padri, in una pericolosa quanto immobile riproposizione dell’identico.
Le mafie restano un pericolo per le democrazie
Nonostante il quadro confortante sopra delineato, sarebbe un gravissimo errore ritenere di avere definitivamente sconfitto “cosa nostra” la quale, pur versando in grosse difficoltà organizzative ed operative per l’incessante azione preventiva e repressiva delle forze dell’ordine e della magistratura, tuttavia continua ad operare con modalità sempre più sofisticate, favorite dalla globalizzazione dei mercati finanziari e dalla integrazione economica dei paesi europei come conseguenza della riduzione delle barriere doganali, ciò che, unitamente al commercio elettronico, offre nuove opportunità alle organizzazioni criminose per sviluppare nuove modalità operative criminali, potendo operare più facilmente.
Le operazioni di riciclaggio e reimpiego di capitali illeciti tendono sempre più a svolgersi in un contesto internazionale, privilegiando i paesi che – per negligenza o per calcolo economico – presentano normative meno rigorose in tema di identificazione della clientela e dei comportamenti sospetti.
La prospettiva nazionale risulta dunque angusta per una efficace politica di prevenzione e contrasto del riciclaggio e si impone sempre più la necessità di una armonizzazione delle legislazioni in materia di misure di contrasto ai patrimoni illeciti.
Per questa ragione, si è ormai da tempo consolidato il convincimento circa la necessità di un’azione condivisa a livello internazionale con scambi informativi rapidi e completi tra le autorità dei diversi paesi per delineare con prontezza un quadro unitario delle operazioni di money laundering.
Inoltre oggi bisogna fare i conti con una ‘ndrangheta che ormai da tempo ha acquisito il monopolio del narcotraffico internazionale grazie alla capacità di proporsi come interlocutore affidabile per i cartelli colombiani e messicani, facendo leva su una struttura più spiccatamente familistica che ne ha favorito una maggiore impermeabilità rispetto al pericolo di collaborazioni da parte di personaggi di spicco come è avvenuto per “cosa nostra”.
La Chiesa di Papa Francesco
Ma oggi più che mai un ruolo fondamentale sul piano della formazione delle coscienze può e deve essere svolto, non solo dalla scuola, ma anche dalla Chiesa; oggi perché questo straordinario uomo, che non a caso porta un nome carico di pregnante valore simbolico, Papa Francesco, che sa parlare ai cuori ed alle coscienze, anche dei non credenti, con un linguaggio nuovo, a pochi giorni dal suo insediamento, ha detto una cosa importante: la politica come servizio e non come potere.
Un Papa che per la prima volta ha usato parole critiche contro un sistema capitalistico profondamente ingiusto che favorisce la concentrazione della ricchezza e mortifica con le diseguaglianze economiche e sociali la dignità di milioni di persone.
Un Papa che nella sua ultima enciclica ecologica, “Laudato sì”, ha saputo esprimere una cultura ambientalista che si ricollega ad una ben più ampia etica della responsabilità in cui mi è sembrato di riconoscere il pensiero del grande filosofo tedesco di origine ebraica Hans Jonas.[2]
Da magistrato siciliano, che ha svolto le proprie funzioni sia in Sicilia che in Calabria, sono profondamente convinto che tanto la mafia quanto la ‘ndrangheta hanno prosperato per l’isolamento dei pochi che le combattono e per il disimpegno dei molti che rinunciano ad ogni possibilità di riscatto della propria dignità di cittadini rassegnandosi al ruolo di sudditi.
Credibilità delle istituzioni e libertà degli individui
L’alto numero di provvedimenti di scioglimento di consigli comunali conseguenti a fenomeni di infiltrazione e condizionamento di tipo mafioso suffraga la fondatezza del mio profondo convincimento che le organizzazioni mafiose, comunque localmente denominate, si sono progressivamente imposte e radicate nel tessuto sociale soprattutto nelle aree geografiche in cui più sensibilmente si è manifestata la crisi etico-sociale delle istituzioni.
Io credo che solo la credibilità etica delle istituzioni potrà favorire la legalità, non solo e non tanto come concreta osservanza della norma, ma come atteggiamento psicologico di chi obbedisce alla norma perché avverte il dovere di farlo (Kant concludeva la sua “critica della ragion pratica” con la frase, riportata come epitaffio sulla sua lapide : “il cielo stellato sopra di me la legge morale dentro di me”): in questo senso sarebbe più appropriato parlare di senso civico o di etica pubblica che costituiscono il vero “capitale sociale” da contrapporre al consenso sociale su cui la mafia tradizionalmente ha potuto contare.
Se non si recupera il senso profondo della legalità questo ruolo di sudditanza sarà perpetuato e i diritti di cittadinanza resteranno dei valori privi di contenuto ed effettività.
Ai giovani con i quali ho avuto spesso l’onore di confrontarmi nelle scuole rivolgo sempre l’augurio e l’invito a vivere da uomini liberi, ma con la consapevolezza che solo la legalità assicura la libertà – come ammoniva Piero Calamandrei [3] – e quindi la democrazia, la quale si conquista e si difende, giorno per giorno, anche attraverso una diffusa e costante intransigenza morale [4] nei confronti del potere: solo la pratica di questa intransigenza potrà promuovere la consapevolezza in ciascun cittadino dei propri diritti e dei propri doveri, ma anche il rifiuto dei privilegi.
Io credo che a Paolo Borsellino – che mi è stato maestro di diritto e di vita durante il tirocinio nel lontano luglio del 1978 – ci legherà sempre un debito di riconoscenza per avere contribuito con il suo sacrificio alla definitiva acquisizione alla coscienza collettiva della consapevolezza della insufficienza della sola risposta giudiziaria e della necessità di respingere con fermezza il mistificante tentativo di far credere che essa possa da sola costituire un rimedio risolutivo ed esclusivo del problema del fenomeno mafioso e della necessità, per contro, di una crescita culturale della società civile.
In questa prospettiva di crescita della società civile desidero sottolineare l’importanza della presenza dei magistrati nelle scuole per contribuire alla diffusione della cultura della legalità.
Alla base di questo impegno morale e sociale, che, ribadisco, considero una forma di militanza “politica” in difesa della dimensione etica della legalità, v’è il profondo convincimento della necessità di onorare quello che considero il testamento spirituale di Paolo Borsellino: “Se la gioventù le negherà il consenso anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”.
Nel corso di varie conferenze tenute nei paesi del Centro e del Sud America, nel quadro di una attività di collaborazione internazionale attraverso corsi di formazione professionale in tema di contrasto alla criminalità organizzata, ho sempre sottolineato che in Italia abbiamo raggiunto risultati che 20/30 anni fa sembravano impossibili, ma che molto resta ancora da fare nella lotta per la liberazione dalla oppressione mafiosa sia sul piano politico-culturale – come dimostrano le polemiche su alcune “imbarazzanti” presenze nella competizione elettorale in occasione delle recenti elezioni amministrative di Palermo – sia sul versante investigativo per far luce sui depistaggi, sui mandanti esterni delle stragi del 1992 e sull’eventuale coinvolgimento di pezzi deviati e funzionari infedeli dello Stato.
Tuttavia stiamo tentando di vincerla con uno sforzo collettivo, soprattutto culturale, attraverso la rifondazione dello Stato e della società civile sulla base di una nuova etica collettiva.
* Magistrato in pensione
Una sintesi del presente testo è stata pubblicata sul numero 435/2022 della rivista “Segno”
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Note
[1] L’elenco è drammaticamente lungo ma li voglio ricordare tutti sperando di non fare torto a qualche vittima dimenticata : 20/8/1977 Col.dei CC Giuseppe Russo e l’insegnante Filippo Costa; 9/5/1978 Peppino Impastato; 26/1/1979 Mario Francese, giornalista; 21/7/1979 dr. Boris Giuliano; 6/1/1980 Piersanti Mattarella; 4/5/1980 Cap. Emanuele Basile; 6/8/1980 dr. Gaetano Costa ; 11/8/1982 dr. Paolo Giaccone; 13/6/1983 Cap. Mario D’Aleo; 30/4/1982 On. Pio La Torre e l’autista Rosario Di Salvo; 3/9/1982 Gen Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo; 14/11/1982 Agente P.S. Calogero Zucchetto; 25/1/1983 dr. Giacomo Ciaccio Montalto; 29/7/1983 Strage di Via Pipitone Federico con l’omicidio del cons. istr. Rocco Chinnici, il m.llo Mario Trapassi, l’app.to Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi; 2/4/1985 strage di Pizzolungo per l’attentato al dr. Carlo Palermo rimasto gravemente ferito insieme agli agenti di scorta ed all’autista e con la straziante morte di Barbara Rizzo e dei gemellini Giuseppe e Salvatore Asta; 28/7/1985 dr. Beppe Montana; 6/8/1985 dr. Ninni Cassarà e Ag. Roberto Antiochia; 14/9/1988, dr. Alberto Giacomelli; 25/9/1988 dr. Antonino Saetta ed il figlio Stefano; 9/8/1990 dr. Antonio Scopelliti; 21/9/1990 dr. Rosario Livatino; 29/8/1991 Libero Grassi;; 4/4/1992 m.llo Giuliano Guazzelli; 23/5/1992 strage di Capaci in cui rimasero uccisi Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro e molti altri feriti; 19/7/1992 strage di via D’Amelio in cui rimasero uccisi Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina e Claudio Traina;15/9/1993 don Pino Puglisi; seguirono gli attentati di Firenze (27/5/1993), Roma e Milano (27/7/1993) con dieci morti e numerosi feriti fino al fallito attentato dello stadio Olimpico di Roma del 23/1/1994.
[2] Hans Jonas, Il principio responsabilità. Saggio di un’etica per la civiltà tecnologica. Ed. it. a cura di P.P.Portinaro, Einaudi, Torino 1990
[3] Piero Calamandrei : “Colla legalità non vi è ancora libertà, ma senza legalità libertà non può esserci…La legalità è condizione di libertà, perché solo la legalità assicura, nel modo meno imperfetto possibile, quella certezza del diritto senza la quale praticamente non può sussistere libertà politica”. Cfr. Non c’è libertà senza legalità, pag. 11, Anticorpi-Laterza 2013:.
[4] La “necessità di una diffusa e costante intransigenza morale” e di una “azione convinta di cittadini che non abbiano timore di essere definiti moralisti, che ricordino in ogni momento che la vita pubblica esige rigore e correttezza”, è stata autorevolmente ribadita da Stefano Rodotà nel saggio “Elogio del moralismo”, Laterza, 2011.
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