Giustizia: “Se 1 detenuto su 3 è in custodia cautelare, qualcosa non funziona”
Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone e giurista: “Il 2° quesito referendario tocca il tema della carcerazione preventiva, un provvedimento straordinario del Diritto, che su spinta sociale è diventato una consuetudine in moltissimi, troppi, casi”
Quando si pensa e si parla (ma anche quando si scrive) di misure cautelari viene subito in mente la più afflittiva – ovvero quella che più incidente sulla libertà dell’imputato o dell’indagato in un procedimento penale – non ancora condannato – tra quelle previste dal codice: la custodia in carcere. Non è l’unica misura, che è necessario ricordare può essere presa nei confronti di persone “non colpevoli fino a prova contraria”. Ci sono gli arresti domiciliari, la custodia cautelare in luogo di cura, il divieto e l’obbligo di dimora, il divieto di espatrio, l’obbligo di firma, l’allontanamento dalla casa familiare, il divieto di avvicinamento alla persona offesa: tutte misure cosiddette “coercitive”. Poi ci sono quelle “interdittive”, che impediscono al soggetto colpito di esercitare ruoli e facoltà: la sospensione da un pubblico ufficio o servizio, la sospensione dall’esercizio della potestà genitoriale, il divieto temporaneo di contrattare con la pubblica amministrazione o di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali.
Tra i cinque referendum per cui gli italiani potranno votare domenica 12 giugno (qui la nostra guida), il 2° propone la “limitazione delle misure cautelari attraverso l’abrogazione dell’ultimo inciso dell’art. 274, comma 1, lettera c), codice di procedura penale, in materia di misure cautelari e, segnatamente, di esigenze cautelari, nel processo penale. Il quesito limita le possibilità di adottare misure cautelari (obblighi di firma, arresti domiciliari, ecc.), compresa la carcerazione preventiva, la più importante di tutte, il cui eccesso è un problema reale. Si interviene sulla tipologia della possibile reiterazione del medesimo reato, che in vari casi (ad esempio lo stalking, la truffa, reati fiscali e finanziari) appare però un pericolo obiettivo”.
Patrizio Gonnella, da presidente dell’associazione Antigone, ma anche da giurista, la modifica al provvedimento previsto dal referendum, in che modo potrebbe incidere – venendo approvato – sull’ordinamento giuridico?
Innanzitutto va detto che le misure cautelari, intervenendo prima di una condanna definitiva, si pongono a livello di diritto astrattamente in contrasto con la presunzione di innocenza sancita dalla Costituzione. Per applicarle quindi servono una serie di requisiti stringenti: il primo, quello più generico, è la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza. Il secondo è il riconoscimento, da parte del giudice, di una delle tre esigenze cautelari previste dall’articolo 274 comma 1 del codice di procedura penale.
Ovvero quello su cui vorrebbe intervenire il referendum?
Si anche perché le misure cautelari vengono assegnate se c’è il pericolo di inquinamento delle prove [Quando sussistono specifiche ed inderogabili esigenze (…) in relazione a situazioni di concreto e attuale pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova” (lettera a)]; pericolo di fuga [Quando l’imputato si è dato alla fuga o sussiste concreto e attuale pericolo che egli si dia alla fuga” (lettera b)]; pericolo di reiterazione del reato [Quando (…) sussiste il concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede”]. Quest’ultimo motivo è quello che cadrebbe in caso di passaggio del referendum, rendendo più complesso il ricorso alle misure cautelari.
Perché si vuole limitare il ricorso a queste misure? Oggi qual è l’impattano le misure cautelari che si riflettono direttamente anche sul sistema-carcere?
Secondo i dati forniti dal Ministero della Giustizia riferiti al 2021, meno del 10% delle 32.805 misure di custodia cautelare in carcere emesse nel corso dell’anno ha avuto come esito un’assoluzione definitiva (l’1,6%) o non definitiva, o un proscioglimento a vario titolo. A fronte di questi dati, c’è però il fatto che nel 2021 in Italia decine di migliaia di persone siano state private delle libertà in carcere, essendo ancora in attesa di giudizio. A loro si aggiungono circa 20mila persone ai domiciliari. Come Antigone, dai rilevamenti che facciamo nelle carceri nazionali ogni anno, riscontriamo che circa 1 detenuto su 3 è in cella, ma in attesa della condanna definitiva.
La persona detenuta attraverso la misura di custodia cautelare è un detenuto con gli stessi diritti di chi è stato condannato in definitiva?
Suo malgrado, no. Le persone a cui viene ristretta la libertà con la misura cautelare in carcere si trovano in una sorta di limbo: sono detenute, ma non hanno i diritti dei detenuti condannati per cui costituzionalmente il carcere ha il compito di provvedere alla creazione di percorsi rieducativi e riabilitativi. Quindi non possono aderire alle misure alternative o accedere ai servizi dell’area trattamentale perché sono in attesa di giudizio e quindi presumibilmente innocenti. Inoltre c’è un numero non indifferente di persone per le quali la custodia cautelare è una misura che viene giudicata ingiusta, e per la quale il legislatore prevedere la riparazione: sono stati 750 provvedimenti di risarcimento per detenzione in carcere nel 2020, poco meno di 600 nel 2021, con un esborso economico medio di 44mila euro a persona.
Questo referendum è secondo lei è riuscito ad essere un’occasione – al di là di come andrà il voto del 12 giugno – per stimolare la coscienza civica degli italiani sul ruolo della giustizia e del carcere?
Credo che serva un lavoro educativo e culturale, prima che giuridico e normativo, da compiere nel nostro Paese. I giudici sono condizionati in modo inevitabile della pressione sociale della politica, dei media e dei social-media. Dalla “cultura” del “devono marcire in galera” o ancora del “buttiamo via la chiave” riferendosi a persone indagate o imputate. Occorre quindi portare avanti un lavoro culturale che faccia permeare nelle coscienze degli italiani il senso civico del principio di presunzione d’innocenza, che tutela tutti. E poi dobbiamo lavorare sul far passare il fatto che la pena non sia una punizione per il reato commesso, ma il primo passo di un percorso di recupero e rieducazione per far rientrare il detenuto in società.
Chi deve fare questo lavoro?
I giuristi. Il referendum poteva essere un’occasione per nutrire la coscienza civica e critica degli italiani, ma non è stato così. A prescindere da quanti vadano a votare degli aventi diritto. Quello di promuovere la cittadinanza attiva è un compito che non si può affidare “solo” alle agenzie intermedie, dall’associazionismo al Terzo settore, fino alla scuola: in prospettiva spero che i partiti recuperino la funzione pedagogica di un tempo anche per quanto riguarda i diritti e il diritto. Oggi sono gli studiosi, i giuristi, i giudici, gli avvocati che devono iniziare a fare divulgazione sul diritto e sulle regole del vivere collettivo, un percorso che gli scienziati hanno dovuto compiere “accelerando” durante la pandemia, ma l’obiettivo è che ci siano divulgatori che affrontino questi temi.
* Vita.it, 07/06/2022
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