Giustizia e mondo del lavoro: i passi fatti e quelli da fare
Il tema del lavoro è stato decisivo per la storia della «nuova» magistratura.
Dopo i lunghi anni di inadempimento di alcuni importanti aspetti della Costituzione (favorito dalla famigerata invenzione da parte della Cassazione della categoria delle norme costituzionali programmatiche: non suscettibili, cioè, di applicazione diretta, ma costituenti semplici programmi per il legislatore ordinario), si è via via consolidata la consapevolezza che la Carta poteva e doveva essere motore di sviluppo nell’interesse di tutti.
Non a caso la nostra Costituzione, a differenza dello Statuto albertino, si apre con l’affermazione dei principi fondamentali e dei diritti dei cittadini, affiancati ai doveri inderogabili di solidarietà, e non con le disposizioni sulla organizzazione dello Stato. Nello stesso tempo precisa che l’onnipotenza della politica (la sua possibilità, cioè, di fare e disfare a piacimento, ove ne abbia la forza e i numeri) trova dei limiti nella previsione costituzionale di una democrazia pluralista.
La sovranità non appartiene, come in altri sistemi o epoche, al re o magari all’uomo della provvidenza, ma al popolo, ai cittadini che sono gli arbitri del proprio destino. La Carta lo stabilisce fin dall’articolo 1, con la chiosa che “il popolo esercita [la sovranità] nelle forme e nei limiti delle Costituzione”. Vale a dire che la sovranità va esercitata entro binari prestabiliti e con l’obiettivo di realizzare una democrazia emancipante, nella quale il compiuto riconoscimento dei diritti di libertà è integrato dalla solenne affermazione del principio di uguaglianza in senso sostanziale, assunto non come semplice aspirazione o obiettivo ma come dato normativo fondamentale.
In questa democrazia la cittadinanza è uno status di cui fanno parte, oltre al diritto elettorale, un reddito decoroso e il diritto a condurre una vita civile, anche quando si è ammalati o vecchi o disoccupati o stranieri; i principi di giustizia distributiva sono diventati diritti e le politiche per realizzarli atti dovuti, sottratti una volta per tutte alla negoziazione politica.
Tutto ciò non è rimasto senza effetti nel nostro Paese. Il cambiamento, è cominciato negli anni sessanta e si è consolidato negli anni settanta, a partire da quando con lo statuto dei lavoratori (maggio 1970) i giudici si videro attribuire un inedito ruolo di garanti e promotori dei diritti sociali e il sistema giudiziario divenne strumento di emancipazione dei cittadini innescando un rinnovamento sociale e politico denso di effetti sulla giurisdizione. Il modello era, per definizione, espansivo e in breve si affermò anche in altri settori: casa, studio, diritti degli utenti, famiglia, minori, handicap, aree emarginate, tossicodipendenza, sofferenza psichica, immigrazione, etc.
Tutto questo, oltre a produrre vari cambiamenti nella società, ne ha reso più complesso il governo: attribuendo un ruolo nuovo anche al diritto, che ha cessato – per dirla con Gustavo Zagrebelsky – di essere proprietà di qualcuno per diventare «oggetto delle cure di molti». Ciò è stato percepito anche a livello di ampi settori della opinione pubblica se è vero che l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge è diventata per molti un obiettivo reale. Mentre non sono mancate conseguenze anche sul ruolo e sulla percezione di sé dei giuristi che amministrano giustizia: un buon numero dei quali è cresciuto nella capacità di seguire la propria coscienza e le proprie idee, indipendentemente da o perfino contro chi governa (chiunque esso sia), invece di esserne lo strumento.
Lavoro e delega
In democrazia non possono esserci dubbi sul «primato della politica». Difatti, spetta unicamente alla politica operare le scelte finalizzate al buon governo. Nessun altro, compresa ovviamente la magistratura, può arrogarsi questa funzione. Sta di fatto però che proprio alla magistratura (e alle forze dell’ordine) sono stati delegati a ripetizione, nel tempo, gravi problemi che la politica non ha voluto o saputo affrontare o risolvere.
È successo in particolare per la mafia, per la corruzione e per la sicurezza sui posti di lavoro: dove si è arrivati al punto di affidare impropriamente ai magistrati la terrificante alternativa tra la vita e il lavoro dei dipendenti dell’Ilva di Taranto….
Lavoro e illegalità
È un dato di fatto incontestabile che l’illegalità, in tutte le sue declinazioni, incide negativamente – e pesantemente – sulla qualità della nostra vita. Ma quando si affronta il drammatico problema della sicurezza sul posto di lavoro e della violazione delle regole anti-infortunistiche non si deve parlare solo di incidenza sulla qualità della vita, ma di salvaguardia della vita stessa.
Purtroppo l’Italia è ai primi posti nella graduatoria europea sugli infortuni, anche mortali, e registra una vergognosa mortalità minorile assai superiore alla media europea. Assai elevata è anche la percentuale degli infortuni occorsi ai lavoratori immigrati, che hanno molte più probabilità, rispetto a quelli italiani, di restare vittime di infortuni.
Quanto al lavoro sommerso (che in Italia, secondo stime prudenziali, riguarda svariati milioni di persone) i dati indicano un numero elevatissimo di infortuni, soprattutto nel settore edilizio; ma si tratta di incidenti che in gran parte, per forza di cose, restano… sommersi.
Statistiche tremende
L’Inail attesta , nell’anno 2021, ben 1221 infortuni con esito mortale, più di tre morti ogni giorno. A volte, purtroppo, nel ritmo degli incidenti si registrano impennate da ecatombe.
Spaventosa ad esempio è la cronaca della prima decade dell’agosto 2021, alla quale Luciano Canfora ha dedicato alcune pagine sconvolgenti e commosse (cfr. “La democrazia dei signori”, pag.33 sg., Laterza 2022).
Reazioni sdegnate…
Specie dopo i casi più eclatanti o le sequenze più impressionanti di infortuni, si assiste a una specie di gara di prese di posizione indignate. Dichiarazioni costernate di politici e di “esperti” affollano per qualche ora media e talk-show.
A prevalere, con un effetto piuttosto deludente, sono però le affermazioni retoriche o scontate. Tipo: la vera causa di tutto è che si è perso il senso delle dignità del lavoro; il diritto al lavoro è diritto alla sicurezza; occorrono interventi diretti urgenti e risolutivi; non basta piangere le vite spezzate, bisogna rimboccarsi le maniche; la vita è sacra; sono in gioco due valori costituzionali, salute e lavoro; troppe morti sul lavoro sono causa dalla mancata adozione delle necessarie contromisure; occorre poter lavorare in sicurezza; si deve lavorare per vivere e tornare a casa ogni sera…
…e propositi solenni
Seguono poi – per fortuna – preannunzi e impegni. Di solito però piuttosto generici: più spazio alle misure sospensive e interdittive; nuovi strumenti agli organi di vigilanza; perfezionare le procedure…A volte con formule tipiche del miglior burocratese, come “ verificare il livello degli organici per la definizione degli standard di fabbisogno di personale ispettivo”.
In realtà, i buoni propositi si perdono poi in una sostanziale inerzia e non si traducono quasi mai in risposte concrete. Anche perché non manca mai di farsi sentire qualche disinvolto rappresentante di Confindustria che vorrebbe rimuovere dal tavolo il problema.
Realtà concreta
Accanto alle aziende responsali ce ne sono altre che dettano i tempi di lavoro ma non prevengono a sufficienza gli incidenti. C’è chi specula sulla vita dei lavoratori aggirando misure di sicurezza (anche essenziali) per aumentare i profitti. Gli errori di manovra dei lavoratori e il malfunzionamento delle macchine non cancellano queste realtà.
Mancano per lo più sanzioni certe per colpire i responsabili. Decisiva è la carenza di ispettori del lavoro, il cui numero è irrisorio e le cui denunce spesso non si risolvono neanche in multe.
Che fare?
Obiettivo preliminare è diffondere cultura di prevenzione utilizzando argomenti di semplice buon senso ma per ciò stessi più efficaci. Come riflettere che le cinture si devono usare (come sulle auto) non solo perché ci sono o per non beccarsi la multa, per la consapevolezza che salvano la vita.
Fondamentali sono il potenziamento e l’ottimizzazione delle ispezioni. Luigi Pavanelli è il direttore dello Spresal (servizio prevenzione e sicurezza del lavoro) della Asl di Torino, tra le più grandi in Italia: i dipendenti sono soltanto poco più di 20! Per paradosso ci sono 11 diversi organismi di vigilanza, per cui può capitare che tre o quattro enti diversi vadano dallo stesso datore di lavoro nell’arco di pochissimi giorni…
Soprattutto nei cantieri edili, un protocollo presso le Prefetture per stipulare un patto contro gli incidenti potrebbe essere utile. Di grande significato potrebbe essere l’istituzione del reato di omicidio sul lavoro (come richiesto in particolare dai sindacati di base Usb e dalla rete Iside onlus). Le imprese fuori legge andrebbero escluse dagli appalti pubblici. Nello stesso tempo occorre intervenire energicamente contro la proliferazione dei sub appalti che rende arduo identificare chi sanzionare.
Nessuna…nostalgia del Faraone
Va da sé (magra consolazione…) che non può esserci nessun rimpianto del passato. C’era un tempo che i procuratori generali ad ogni inaugurazione dell’anno giudiziario liquidavano come «tragica fatalità» gli incidenti sul lavoro (un po’ come la mafia che non esisteva…). Mentre a Torino morire in fabbrica «non si poteva», nel senso che se capitava qualcosa lo sfortunato operaio doveva essere comunque portato in ospedale perché risultasse morto lì e non in fabbrica.
Questi tempi nefasti sono cambiati quando la magistratura ha acquisito una nuova sensibilità per la sicurezza sul lavoro. Esprimendo figure come Raffaele Guariniello a Torino, grazie al quale si sono potuti fare processi (ThyssenKrupp ed Eternit) che hanno rappresentato una svolta. Di Guariniello ce ne sono altri, ma la professionalità specifica sul territorio nazionale è ancora a macchia di leopardo. Ottima cosa sarebbe perciò la creazione di una Procura nazionale antiinfortunitistica, ad imitazione di quella antimafia/antiterrorismo. Guariniello si è sgolato e si sgola per ottenerla, ma è inascoltato.
Come inascoltato è rimasto chi (dopo la sentenza Eternit della Cassazione) aveva chiesto una riforma della prescrizione – per altro subito promossa dai politici di turno – che eliminasse la vergogna di gravissimi reati permanenti cancellati per decorso del tempo, essendoci malattie e morti che si registrano anche a molti anni di distanza dalla chiusura degli stabilimenti.
* Fonte: Rocca n°09 – 1 maggio 2022
Rocca è la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi
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