Mafia colta e “perbene”, combatterla oggi è più difficile
I trent’anni della Dia. «Persone colte, plurilingue, con importanti relazioni sono messe al servizio del business mafioso. Oggi le mafie si avvalgono non tanto di chi fa “pum pum” per la strade, ma piuttosto di chi fa “pin pin” sulla tastiera»
Ho sempre sostenuto che il lavoro dei magistrati inquirenti funziona in quanto vi sia il lavoro delle forze dell’ordine che soffia nelle loro vele. Vale per tutte le forze dell’ordine. Ma qui oggi lo dico in modo particolare per la Dia, la Direzione investigativa antimafia, una specie di Fbi italiana dedicata al contrasto delle cosche mafiose.
Voluta e pensata da Giovanni Falcone (insieme alle procure, nazionale e distrettuali, antimafia) per mettere a frutto anche su scala nazionale il metodo vincente – collaudato dal pool di Palermo – impostato sui parametri della specializzazione degli operatori e della centralizzazione dei dati, senza più la polverizzazione in mille rivoli deleteria per le indagini.
Le varie operazioni della Dia hanno interessato la zona di Torino, con numerosi arresti e con il sequestro di beni per un ammontare complessivo assai rilevante. Si possono ricordare Pioneer (2009-2010), sul reinvestimento di capitali della “locale” Cimina; Marcos (2010) e Panamera (2015), ancora su attività di riciclaggio; Platinum (2021), relativa a un’organizzazione criminale finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti che ha portato anche all’incriminazione di vari soggetti della “locale” di Volpiano.
Un elenco in sé arido, ma da valorizzare ricordando che oggi le mafie si avvalgono non tanto di chi fa “pum pum” per la strade, ma piuttosto di chi fa “pin pin” sulla tastiera (così in una conversazione intercettata).
Vale a dire che le nuove leve mafiose non sono più dei “malacarne”, ma vengono anche da un’operazione di “arruolamento”, ben remunerato, di operatori sulle diverse piazze finanziarie. Persone colte, plurilingue, con importanti relazioni messe al servizio del business mafioso, che così assume anch’esso un’apparenza “perbene”. Profilo questo che obiettivamente rende più difficili le indagini e più apprezzabili i risultati.
Quanto a me, devo a una segnalazione della Dia l’interrogatorio di Santino Di Matteo, un mafioso arrestato dalla Procura di Palermo che allora dirigevo.
Nella notte del 24 ottobre 1993, mi rivelò per filo e per segno la strage di Capaci, cui aveva partecipato come esecutore materiale.
Ricordo bene, da un lato l’orrore per la rievocazione di un fatto così spietato; dall’altro la soddisfazione personale per essere il primo a raccogliere la confessione di un attentato così influente sulla storia del nostro Paese.
Avvertivo che il sacrificio di Falcone (presente nel cuore di tutti) cominciava a trovare risposte pure in atti concreti di giustizia. Per merito, appunto, anche della Dia.
Fonte: La Stampa, Torino
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Quella notte Santino Di Matteo mi raccontò la strage di Capaci
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