Nascita e storia del pool antimafia: il problema del metodo
Il modello di “lavoro specializzato di gruppo” per i processi di mafia [il cd. pool dell’Ufficio Istruzione][1] fu – ad un certo momento della vita giudiziaria di Palermo all’inizio degli anni Ottanta – una vera e propria necessità per fronteggiare non più sostenibili carenze culturali ed organizzative in ordine all’assoluta ignoranza del fenomeno mafioso, in un periodo nel quale venivano uccisi uno dietro l’altro (a parte un centinaio di rinomati mafiosi) uomini dello Stato quali Boris Giuliano (21.7.1979), Cesare Terranova (25.9.1979), Piersanti Mattarella (6.1.1980), Gaetano Costa (6.8.1980), Pio La Torre (30.4.1982) e Carlo Alberto dalla Chiesa (3.9.1982).
Ma per giustificare tale affermazione – che può apparire perentoria – ritengo utile un flash-back, consistente nel ripercorrere (sia pure in sintesi) le vicende degli anni Sessanta/Settanta nonché l’iter dei pochissimi processi di mafia (4/5) celebrati in quegli anni.
Processi (quasi) del tutto falliti anche per l’assoluta inadeguatezza del metodo di lavoro utilizzato per indagare su un fenomeno che non è semplice criminalità, ma parte di un sistema di potere.
Si scoprirà, in tal modo, che lo sviluppo storico è stato molto più lineare di quanto si possa immaginare e, soprattutto, che l’analisi ci conduce (per molti versi) anche al centro di indagini di mafia di questi ultimi anni.
A riprova del fatto che nelle dinamiche di Cosa nostra la “chiave di lettura” è – molto spesso – riposta in un passato che, per statuto epistemologico, deve essere sempre tenuto presente se si vuole avere un corretto approccio interpretativo con i problemi dell’attualità.
Per capire appieno ciò dobbiamo ricordare che il 30 giugno 1963, alle ore 11.30, nella contrada di Ciaculli, in Palermo, saltava in aria una “Giulietta”, imbottita di tritolo, e morivano sette uomini dello Stato, tra carabinieri, poliziotti ed artificieri.
Erano i tempi della cd. “prima guerra di mafia”.
In effetti, per limitarci a pochissimi cenni, di auto imbottite di esplosivo ve ne erano state molte in quei mesi.
Ad esempio:
– il 12 febbraio 1963 una Fiat 1100 era scoppiata, sempre a Ciaculli, dinanzi alla casa di Totò Greco “cicchiteddu” (cugino di Michele Greco “il papa”), senza fare morti;
– il 26 aprile 1963 una “Giulietta” era scoppiata a Cinisi (paese di Gaetano Badalamenti), uccidendo il famoso “don” Cesare Manzella ed un suo fattore;
– e quella stessa mattina del 30 giugno 1963, all’alba però, un’altra “Giulietta” era esplosa a Villabate (confinante con Ciaculli), dinanzi al garage del boss Giovanni Di Peri, uccidendo il guardiano ed un passante. Il Di Peri sarebbe stato poi trucidato, vent’anni dopo, nella cd. strage di Natale del 1981 a Bagheria.
Nonostante il gravissimo sconcerto destato nell’Italia intera dalle vicende di Ciaculli del 30 giugno 1963 (invero, due auto saltate in aria nel giro di quattro ore non erano facilmente “digeribili”, mediaticamente, neppure allora), il Cardinale di Palermo, S.E. Ernesto Ruffini, appena pochi giorni dopo – nello scrivere al Segretario di Stato vaticano Cardinal Cicognani – trovava il coraggio di affermare che “la mafia era un’invenzione dei comunisti per colpire la D.C. e le moltitudini di siciliani che la votavano”.
Per chi non lo ricordasse, il Card. Ruffini era colui che aveva – solo poco tempo prima – accolto incautamente l’invito di Piddu Greco “u tenente” (padre di Michele Greco “il papa” e di Salvatore Greco “il senatore”) per benedire la nuova chiesa delle contrade di Croceverde-Giardini e per pranzare – subito dopo – alla di lui tavola [2]. Tra l’altro, nell’ottobre 1965, il Piddu Greco veniva arrestato, ed il 30.5.1966 inviato al soggiorno obbligato dalla Corte di Appello di Palermo [3].
Il Cardinale era zio, altresì, dell’allora giovane avv. Attilio Ruffini, appena venuto da Mantova ma già legale e factotum dei noti cugini Nino e Ignazio Salvo, padroni delle esattorie siciliane (avevano, infatti, ottenuto – in data 11.1.1963 – il loro primo appalto decennale con una legge regionale approvata anche con il voto determinante di alcuni deputati dell’opposizione).
Ma in quello stesso mese di luglio 1963, all’Assemblea Regionale Siciliana l’on. avv. Dino Canzoneri (gruppo DC) ebbe la tracotanza di affermare che Luciano Leggio era un galantuomo calunniato dai comunisti solo perché “era un coerente e deciso avversario politico” [4].
Lo Stato reagì alla strage di Ciaculli (almeno formalmente), facendo finalmente funzionare quella Commissione parlamentare antimafia che era stata frettolosamente costituita da qualche mese (febbraio 1963, Presidente il prof. Paolo Rossi), ma che non aveva neppure potuto riunirsi una sola volta, giacché era finita la legislatura.
La Commissione, come noto, era “dovuta” nascere – nonostante i tentativi politici di minimizzare i fatti – a seguito della “guerra di mafia” che stava insanguinando Palermo e che aveva indotto il pur rassicurante “Giornale di Sicilia” ad aprire l’edizione del 20.4.1963 con il titolo “Palermo come Chicago”, dopo la sparatoria in pieno giorno nella centrale pescheria “Impero” di via Empedocle Restivo.
Il 6 luglio 1963, pertanto, svoltesi le elezioni politiche nazionali, il nuovo Parlamento aveva ricostituito subito la Commissione antimafia e ne aveva affidato la guida ad un vecchio giudice meridionale proveniente dalla Cassazione, il sen. Donato Pafundi, che non si era mai distinto né per conoscenze del fenomeno né per attività giudiziaria in processi di mafia.
Giova ricordare, per incidens, che della Commissione era divenuto vice-presidente il siciliano Nino Gullotti (24.5.1964), preferito di fatto all’allora giovane e meno “governabile” Oscar Luigi Scalfaro, che fu indotto a dimettersi dalla carica (22.4.1964).
C’era in quel momento (come sempre in casi simili in Italia) la assoluta necessità di una “risposta straordinaria” ad un evento che non consentiva più di “nascondere la polvere sotto il tappeto”.
Pertanto, in ispecie dopo il varo della nota legge n° 575/1965 suggerita dalla Commissione, si incrementarono le proposte per misure di prevenzione (così esportando l’attività mafiosa, come diranno in seguito i collaboratori, al nord ed in altre zone sane del paese, soprattutto nel settore dei sequestri di persona).
I Ministri dell’Interno diedero incarico ai Questori di presentare alla magistratura rapporti di denuncia (quasi sempre “vuoti”), con elenchi di presunti mafiosi, che erano frutto delle confidenze di informatori prezzolati o altrimenti interessati.
Per quanto riguardò Palermo, epicentro del fenomeno, i risultati giudiziari furono oltremodo modesti, per non dire fallimentari, anche quando i dibattimenti per “legittima suspicione” vennero celebrati fuori dalla Sicilia (o, forse, proprio per questa ragione).
Si arrivò, così alle “storiche” sentenze di Catanzaro (22.12.1968) e di Bari (10.6.1969), che sancirono la bancarotta dell’impegno giudiziario e repressivo degli anni Sessanta.
Le liste degli imputati erano poco più di un paio, ed in particolare: la prima composta da coloro che provenivano da Corleone (processo c/Leggio Luciano+63, istruito dal G.I. Cesare Terranova) e l’altra concernente i mafiosi palermitani (La Barbera Angelo +116).
Il risultato, come si anticipava, fu di assoluzione per tutte le imputazioni di omicidio e di poche condanne per il reato di associazione per delinquere semplice (non c’era ancora il 416 bis) ad una pena media di circa quattro anni di carcere, con ulteriori assoluzioni e con pene diminuite ancora di più in Appello.
Proprio nel processo di Bari (10 giugno 1969) fu assolto (e scarcerato) il giovane Totò Riina, che si diede subito a quella latitanza che cessò solo il 15 gennaio 1993.
Bernardo Provenzano, invece, che si era già sottratto alla cattura nel maggio 1964, continuò ancora fino al 2007, per ben 43 anni, a godere di una splendida libertà.
Il principale protagonista di quella stagione giudiziaria fu, senza dubbio, il Giudice Istruttore di Palermo Cesare Terranova, il quale curò una imponente istruttoria su una decina di omicidi di mafia avvenuti nel corleonese tra il 1958 e il 1963 (a partire da quello del medico mafioso Michele Navarra, cui L’Espresso dedicò una foto in prima pagina che destò molto scalpore).
Era il “metodo di lavoro” però, nonostante l’impegno personale straordinario, ad essere (purtroppo) inadeguato all’importanza del cimento per l’assenza quasi totale di prove, che potessero resistere alle pressioni ambientali del dibattimento e per il fatto che la filosofia giudiziaria dell’epoca faceva “dipendere” integralmente Pm e Giudici istruttori dai soli “rapportoni” delle Forze dell’ordine, basati esclusivamente su mere confidenze e su ricostruzioni di polizia molto spesso semplificatrici (se non “romanzate”).
Inoltre, il lavoro dei magistrati era assolutamente individuale e non collegato neppure a livello di ufficio istruzione, ove all’epoca – di norma – venivano assegnati giudici che i Presidenti del Tribunale non ritenevano idonei per vari motivi a comporre i collegi giudicanti (ove potevano redigersi le cd. “belle sentenze”, tanto utili per gli esami in Appello e Cassazione).
Tuttavia, l’impegno non comune del giudice Terranova non sfuggì a Cosa nostra, che, il 25 settembre 1979, lo uccise in segno di “riconoscenza” non appena egli era rientrato in ruolo dopo due legislature trascorse in Parlamento e si profilava la possibilità che divenisse il nuovo capo dell’Ufficio Istruzione.
In particolare, gli era rimasto personalmente grato Luciano Leggio, che gli addebitava un impegno ai suoi occhi ingiustificato, causa prima dell’unico ergastolo da lui subito in Appello a Bari nel 1970, mentre tutti gli altri venivano assolti.
Nel 1963 appunto (come si sarebbe appreso in seguito dai collaboratori) la Cosa nostra della provincia di Palermo aveva deciso di sciogliersi (almeno ufficialmente), in modo da far mancare alla neonata Commissione antimafia l’oggetto stesso dell’indagine.
Tuttavia, le famiglie più avvedute (in particolare quelle di Corleone, di Santa Maria di Gesù e di Cinisi, ma non solo) avevano tenuto in vita le strutture essenziali, mentre l’organizzazione continuava a vivere nelle province di Agrigento, Trapani, Caltanissetta, Catania ed Enna, rimaste di fatto non toccate dalle indagini.
Quando, dopo le elezioni politiche del 1968 e la fine dei due processi sopra ricordati, Cosa nostra palermitana capì che il “bau bau” dello Stato era scaduto come sempre nella routine (non era stata presentata neppure una relazione “preliminare” sui lavori svolti dall’Antimafia), l’organizzazione si ricostituì nel 1970, affidandosi al famoso triumvirato Leggio-Badalamenti-Bontate.
Invero, in punto di fatto, dalla primavera del 1963 al giugno 1969 quasi tutti gli esponenti di Cosa nostra si trovavano in carcere (ad eccezione di pochissimi latitanti, quali: Buscetta, Greco “cicchiteddu”, Badalamenti, “Mimì” Coppola, Nino Matranga, Giuseppe Panzeca Sr. e Gioacchino Pennino “il vecchio”), per cui sarebbe stato ben difficile per essa continuare ad utilmente operare durante una stagione repressiva che era la prima dopo quella del prefetto Mori del 1925.
Tra l’altro, il processo di Catanzaro (22.12.1968) aveva partorito un “topolino”, ove si pensi – ad es. – che imputati del calibro di Badalamenti, Leggio, Coppola, Matranga, Panno ed Antonino Salamone vennero addirittura assolti dal reato associativo.
Ancora peggiore era stato l’esito della sentenza della Corte di Assise di Bari del 10.6.1969, giacché furono assolti tutti gli imputati “corleonesi” sia dalle numerose imputazioni per omicidi commessi nel periodo 1958/1963 sia dallo stesso reato associativo (fu condannato il solo Riina – ad anno 1 mesi 6 di reclusione – per la falsa patente trovatagli in occasione della cattura in data 15.12.1963).
Sarebbe stata poi la Corte di Assise di Appello di Bari il 23.12.1970, in riforma della precedente sentenza che aveva destato sconcerto nell’opinione pubblica, a condannare Luciano Leggio all’ergastolo per l’omicidio del capo-famiglia di Corleone, dott. Michele Navarra, avvenuto il 2 agosto 1958.
E, proprio per dare un segnale tangibile alla cittadinanza palermitana della ripresa ufficiale dell’attività, Cosa nostra organizzò la “strage di via Lazio” il 10 dicembre 1969 e, un anno dopo (nella notte del 31 dicembre 1970), fece esplodere le cd. “bombe di Capodanno” dinanzi a tre edifici pubblici palermitani, dandone incarico all’emergente Francesco Madonia del quartiere di Resuttana ed al suo giovanissimo rampollo Antonino.
Madonia padre venne processato per detenzione illegale delle armi e degli esplosivi rinvenuti nel suo fondo Patti a Pallavicino, e condannato qualche anno appresso ad una “poco esemplare” pena di soli due anni di reclusione.
Nessun inquirente, però, aveva capito il significato di quelle tre esplosioni contemporanee (palazzo EMS, Ass. Agricoltura e Uff. Anagrafe di via Lazio): sarebbero stati poi i collaboratori, nel 1987, a spiegarlo ai magistrati, facendo loro mettere insieme i pezzi di un puzzle che erano rimasti per quasi vent’anni – per la polizia giudiziaria – accuratamente isolati, separati e non compresi.
Intanto, nella notte sull’8 dicembre 1970, a Roma (ed anche a Palermo) vi era stato il tentativo di golpe del “principe nero della X MAS” Junio Valerio Borghese.
Per Cosa nostra – già in grado da subito di riprendere tutte le sue importanti “relazioni politiche esterne” – avevano preso parte alla trattativa con i golpisti i più autorevoli esponenti di vertice palermitani e catanesi, chiedendo in concambio l’impegno alla revisione del processo in corso a Bari a carico del latitante Leggio per l’omicidio Navarra (nel quale il PM aveva in quelle settimane chiesto l’ergastolo), nonché l’“aggiustamento” del processo di Perugia che nel 1969 aveva visti condannati all’ergastolo Vincenzo e Filippo Rimi per l’omicidio di Toti Lupo Leale, a seguito delle accuse della coraggiosa madre Serafina Battaglia.
Il golpe, come sappiamo, fu improvvisamente bloccato mentre era in corso di svolgimento, ma comunque dopo che un manipolo di ardimentosi era entrato nell’armeria del Viminale rubando dei mitra MAB (ritrovati, qualche anno dopo, nella disponibilità di terroristi di destra a Roma) e dopo che un reggimento del Corpo Forestale aveva sfilato – in armi – per via dei Fori Imperiali.
A Palermo, secondo quanto dichiarò ai giudici nel 1987 uno strano personaggio dell’eversione di destra (Alberto Volo), era già stata occupata la sede RAI di via Cerda (ad opera di esso Volo e di altri) ed era stata sul punto di essere invasa la Prefettura (ove il Capitano dei Carabinieri Giuseppe Russo, quello stesso poi ucciso a Ficuzza da Bagarella nell’agosto 1977, avrebbe dovuto prendere in consegna il Prefetto e sostituirlo personalmente nella funzione).
Cosa nostra, dunque, riprese “alla grande” la propria attività, uccidendo il Procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Scaglione (5.5.1971) e sequestrando (8.6.1971) Pino Vassallo (figlio del noto costruttore Ciccio Vassallo) nonché (16.8.1972) nella centrale via Principe di Belmonte, alle ore 13.30, il giovane Luciano Cassina, figlio dell’influente conte Arturo, uomo dell’establishment politico-imprenditoriale, ma soprattutto legato al potentissimo Vito Ciancimino (il sequestro durò sette mesi e si concluse nel febbraio 1973).
Ad arricchire il quadro, il 30 marzo 1973 si era presentato alla Squadra Mobile di Palermo il giovane Leonardo Vitale, che aveva confessato di appartenere alla famiglia di Altarello di Baida ed aveva svelato (11 anni prima di Buscetta) la struttura, le regole di Cosa nostra, il ruolo di Riina e di Pippo Calò ed aveva indicato il nome di consiglieri comunali di Palermo appartenenti alla sua stessa famiglia mafiosa.
Da questa temperie scaturì, come sempre in questi casi, il cd. “processo dei 114” (c/Albanese Giuseppe+74), avente per oggetto la sola imputazione di associazione per delinquere semplice.
La sentenza di 1° grado (Pres. Stefano Gallo), resa il 29.7.1974 [5], vide condannare solo 34 imputati (tra cui, invero, Gaetano Badalamenti, “Pippo” Calderone, Tommaso Buscetta, Domenico Coppola, Luciano Leggio, Gerlando Alberti Sr., Stefano Bontate e Salvatore Riina). Le pene, però, furono risibili (ad es.: Buscetta a 2 anni 11 mesi; Bontate a 3 anni; Riina a 2 anni e 6 mesi), tranne che per Badalamenti, Calderone, Leggio ed Alberti.
In Appello (1^ sez., pres. Michelangelo Gristina), in data 22.12.1976 [6], le condanne riguardarono solo 16 imputati e la stessa conferma della significativa condanna di Badalamenti ne ridusse però la pena ad anni 2 gg. 15 di reclusione (la sentenza divenne definitiva il 28.11.1979).
Del pari, il processo scaturito dalle dichiarazioni del Vitale (ritenuto affetto da “struttura schizoide” e perciò semi-infermo di mente) si concluse il 14.7.1977 [7] davanti alla 2^ Assise (pres. Carlo Aiello) con la condanna a 25 anni di reclusione del Vitale per gli omicidi confessati ma con l’assoluzione dagli stessi di tutti i chiamati in correità (a cominciare dal Calò). Le condanne per il reato associativo riguardarono solo 9 imputati (tra cui i latitanti Calò e Nino Rotolo, puniti con 7 e con 5 anni e 6 mesi di reclusione). Nessun cenno, nella scarna motivazione di appena 65 pagg., a Cosa nostra ed alle sue strutture.
In Appello (29.10.1980, Pres. Faraci) [8], però, tutti i condannati venivano assolti (ad eccezione dello zio del Vitale e di Scrima Francesco) per insufficienza di prove e Leuccio Vitale veniva inviato al manicomio giudiziario per 5 anni.
Il Vitale, come sappiamo, venne immediatamente ucciso da Cosa nostra l’11.12.1984, appena tornato in libertà.
Intanto, in data 15.1.1976, la Commissione antimafia (Pres. Luigi Carraro) depositava finalmente la sua prima relazione conclusiva dopo oltre 10 anni, il cui unico merito era quello di dire – pur tra molte interessate reticenze – che la mafia si distingue dalle altre organizzazioni similari “in quanto si è continuamente riproposta come esercizio di autonomo potere extra-legale e come ricerca di uno stretto collegamento con tutte le forme di potere pubblico, per affiancarsi ad esso, strumentalizzarlo ai suoi fini o compenetrarsi nelle sue stesse strutture” [9].
L’importanza storica di questa affermazione da anni non sfugge più a nessuno. Allora, però, passò quasi inosservato il fatto che quella frase certificava un vero e proprio salto di qualità: il passaggio dalla concezione culturale – fino ad allora imperante – della “mafia come antistato” al paradigma della mafia come “parte del sistema di potere”.
La Relazione di minoranza conclusiva del gennaio 1976 (a firma di Pio La Torre, Cesare Terranova e altri) non solo criticava e approfondiva questa importante acquisizione, ma la arricchiva di alcuni nomi “pesanti” (a cominciare da Salvo Lima e Vito Ciancimino).
Tuttavia, a mio avviso, l’episodio più emblematico circa l’assoluta inadeguatezza di quel metodo, collegato direttamente all’individualismo dei giudici di quel tempo, è forse quello delle dichiarazioni confidenziali di Giuseppe Di Cristina (da Riesi) al Capitano dei Carabinieri Alfio Pettinato, che vennero rassegnate (con il cd. “rapporto rosso” del 23.8.1978) al Giudice Istruttore di Palermo che si stava occupando del processo per l’omicidio del Tenente Colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo, per il quale erano in carcere tre pastori che la storia futura avrebbe dimostrato del tutto estranei ai fatti, come peraltro la tipologia stessa dell’omicidio avrebbe dovuto fare capire.
In detto rapporto, come noto, il capo-mandamento di Riesi – forse sentendosi prossimo alla vendetta degli avversari – aveva anticipato (al solito come “confidenze”) la trasformazione che la mafia stava subendo ad opera dei “corleonesi” e le linee della “seconda guerra di mafia” (se pur in forma auto-assolutoria non solo per sé ma anche per la fazione dei suoi sodali Bontate e Badalamenti).
Ma ciò che mi pare rilevante è il fatto che l’importanza di quelle notizie (anche se in fieri e da sviluppare) sarebbe emersa solo a distanza di alcuni anni, dopo che la “guerra di mafia” aveva mietuto centinaia di omicidi.
Era il metodo, infatti, ad essere del tutto errato, giacché fatti complessi ed intimamente legati fra di loro (come quelli di Cosa nostra) venivano assegnati sia ai Pubblici Ministeri sia ai Giudici Istruttori con criteri burocratici e di assoluta casualità, facendo sì che a distanza di una sola porta episodi uguali facessero parte di processi differenti.
Non può non segnalarsi poi, a mo’ di esempio, la inquietante circostanza che nei rapporti di polizia giudiziaria degli anni Settanta era letteralmente scomparso ogni cenno alla parola “commissione”, nonostante che in un capo di imputazione (formulato nel lontano 1965) del processo di Catanzaro si fosse contestato espressamente ad alcuni imputati “di aver formato una commissione di mafia, che decideva le sorti dei mafiosi” [10].
Intendo dire che il grave insuccesso di quei pochi (ma significativi) processi o aveva fatto sparire negli organi di polizia la stessa nozione dell’organismo centrale ed essenziale della struttura di Cosa nostra (termine, quest’ultimo, mai usato in alcun atto giudiziario prima della collaborazione di Buscetta) oppure, in alternativa, che vi era stata una tale auto-censura da parte della polizia giudiziaria da indurla a non dovervi più fare cenno.
La conseguenza diretta di tale degradato stato di cose fu – come osserverà amaramente anni dopo Giovanni Falcone in uno dei suoi scritti – che “i problemi sono aggravati da inadeguate conoscenze del fenomeno mafioso da parte della magistratura e così, di fronte ad una organizzazione come la mafia, che si avvia a diventare sempre più monolitica ed a struttura verticistica e centralizzata, vi sono ancora pronunce di giudici che fanno riferimento ad una sorta di del fenomeno mafioso, ipotizzando l’esistenza contemporanea di associazioni distinte” [11].
Ed ancora, in un altro suo scritto: “io ricordo il periodo in cui, dopo la repressione giudiziaria della mafia avvenuta nei primi anni Settanta (allora non si parlava di maxi-processi e non destava scandalo la instaurazione di processi contro numerosi imputati), si è operato in Sicilia come se la mafia non esistesse, tanto che per lunghi anni nessuno veniva denunziato per associazione per delinquere. Ebbene, quando nei primi anni Ottanta il fenomeno è esploso in fatti di violenza inaudita, e quando tanti magistrati e pubblici funzionari sono caduti, con ritmo incalzante, sotto il piombo mafioso, le conoscenze del fenomeno erano ormai assolutamente inadeguate” [12].
La nomina di Rocco Chinnici a Consigliere Istruttore di Palermo (28.1.1980) comincerà ad invertire la tendenza di quella disastrata realtà giudiziaria, giacché la sua non comune capacità di lettura del problema-mafia e la forza di carattere fecero sì che egli innovasse il metodo di lavoro, assumendo su di sé la gran parte delle principali istruttorie sugli omicidi, in un tentativo (tutto da perfezionare) di visione strategica del fenomeno e di coinvolgimento più diretto di alcuni magistrati di quell’Ufficio, a cominciare da Paolo Borsellino e da Giuseppe Di Lello, cui assegnò sempre più complessi processi di mafia riguardanti, in particolare, fatti ed aree omogenei.
L’ottica, però, rimaneva quella di singole assegnazioni a singoli Giudici Istruttori, essendo stato anche Chinnici condizionato da una lettura delle norme del codice di procedura penale e dell’ordinamento giudiziario, che volevano il Giudice Istruttore come giudice monocratico per eccellenza (subito dopo il pretore).
Sarebbe stato poi il suo successore, Antonino Caponnetto, a perfezionare nel novembre 1983 quella intuizione, prospettando una nuova lettura dell’art. 17 delle Disp. Reg. del codice di procedura penale, che gli permise di assegnare formalmente a se stesso oltre 200 processi di mafia, ma di delegarne contestualmente l’istruttoria ad altri giudici [13], in tal modo realizzando il primo vero lavoro in pool. In ciò Caponnetto sfruttò al meglio l’esperienza degli uffici del nord nei processi di terrorismo, ove quella formula era già stata sperimentata senza provocare nullità.
Ad ogni modo, era stato l’arrivo di Giovanni Falcone all’Ufficio Istruzione (1980) e, soprattutto, la felice intuizione di Chinnici di assegnargli il cd. “processo Spatola” a realizzare una svolta decisiva nella storia giudiziaria di Palermo e dell’Italia.
Infatti, la sua determinata convinzione che bisognasse strategicamente accompagnare ogni istruttoria di mafia con indagini bancarie e societarie, avrebbe fatto toccare con mano a tutti l’impossibilità di gestire processi di quelle dimensioni da parte di un solo magistrato.
Falcone vi riuscì mirabilmente con il “processo Spatola” (riguardante ben 75 imputati e 90 capi di imputazione) [14], ma probabilmente non sarebbe stato in grado – da solo – di mettere in piedi e di gestire il maxi-processo.
L’occasione di quella straordinaria indagine bancario-societaria su Spatola & C. gli era stata offerta da un altro paradosso del periodo precedente.
Era avvenuto, infatti, che sul cadavere di Giuseppe Di Cristina da Riesi (ucciso in Palermo il 30.5.1978) fossero stati rinvenuti ben 300 milioni di lire in assegni circolari di piccolo taglio, intestati a decine di nominativi diversi (tutti, o quasi, mafiosi).
Orbene, il sistema di assegnazione “non strategico” dei processi aveva fatto sì che il Giudice Istruttore incaricato, accertando che quegli assegni erano stati emessi a Napoli, ne disponesse lo stralcio e l’invio per competenza a quell’Autorità Giudiziaria, senza neppure pensare all’utilità di estrarne fotocopia da allegare agli atti del processo per l’omicidio, che rimaneva comunque in carico a lui.
Giovanni Falcone, intercettando casualmente qualcuno di quegli assegni circolari nell’indagine Spatola, era riuscito faticosamente a recuperare tutti i titoli bancari ed a scoprire che si trattava della redistribuzione degli utili di un importantissimo traffico di tabacchi lavorati esteri e di stupefacenti.
La “santa barbara” così innescata, soprattutto sul versante dei rapporti societari che erano venuti alla luce, fece comprendere che quelle indagini – oltre ad essere auto-alimentanti (nel senso che ognuna ne faceva aprire altre dieci) – dovevano avere carattere sistemico e dovevano essere organizzate con filosofia tutt’affatto diversa.
Falcone, però, al di là di tutto, aveva posto il vero problema dei processi di mafia: ovvero, che il metodo di lavoro non è affatto “neutro” rispetto all’obbiettivo che si vuole raggiungere, di talché la scelta organizzativa contiene già in sé una opzione di risultato. Aspetto, questo, che soprattutto le vicende degli anni successivi avrebbero dimostrato essere il vero cuore di una “guerra mai finita”.
Le vicende tragiche di quel periodo, in particolare gli omicidi eccellenti del 1980/82 nonché la sconvolgente uccisione di Rocco Chinnici (29.7.1983), fecero accendere una nuova attenzione nazionale su Palermo e sui suoi uffici giudiziari.
L’arrivo del Consigliere Antonino Caponnetto, nel novembre 1983, portò alla svolta organizzativa cui si è fatto innanzi cenno.
In particolare, cambiò a Palermo radicalmente il modo di interpretare il lavoro quotidiano, sulla scorta delle pregevoli e proficue esperienze sempre più divulgate dai colleghi che si occupavano di terrorismo, i quali avevano addirittura creato un network di scambio di informazioni e di atti che li vedeva incontrarsi periodicamente in varie città italiane.
Il metodo di lavoro in pool comportò, all’Ufficio Istruzione, che nulla più potesse essere acquisito in indagini di mafia senza che gli originari quattro colleghi del pool non fossero informati in tempo reale. Era l’“uovo di Colombo”, ma a Palermo le cose più ragionevoli sono le più difficili da realizzare.
L’abnegazione ed il carattere “dolce” (ma allo stesso tempo tenace) di Nino Caponnetto fece il resto. Nessun Giudice Istruttore, ancorché non facente parte del pool, poteva più ignorare che non doveva più essere una monade isolata dell’Ufficio, ma la tessera di un mosaico.
Coloro che non condivisero quella filosofia – che venne comunque accompagnata da un imponente lavoro di “alfabetizzazione culturale” anche a livello di incontri organizzati dal CSM (memorabile l’incontro di Castelgandolfo dell’autunno 1984, con relazione congiunta Falcone/Giuliano Turone) – trovarono ben presto il modo per chiedere il trasferimento ad altro ufficio.
La stessa Procura di Palermo, in previsione dell’apprestamento di requisitorie scritte sempre più impegnative, dovette strutturarsi in modo tale da avere dei sostituti che seguissero a tempo pieno l’andamento dei processi, che pure erano stati “formalizzati”.
Tutto ciò avveniva in un momento di difficile transizione nella magistratura tra un potere giudiziario “arretrato, subalterno alla logica politica dominante, sintonizzato con una strategia politica di conservazione degli assetti economici, sociali ed istituzionali esistenti” [15] ed un nuovo potere giudiziario avanzato, vitale e professionalmente evoluto, autonomo dalla logica politica dominante e da ogni altra logica politica contingente.
Per cui, quel modello di lavoro in pool contro la criminalità mafiosa si calava nella più vasta problematica dell’organizzazione degli uffici.
E, a tal riguardo, basti ricordare che lo stesso CSM si rese conto dell’importanza della rivoluzione, dedicandovi un apposito incontro di studi (Fiuggi, 12-13 luglio 1985), nel quale l’allora Consigliere superiore Franco Ippolito riconobbe ufficialmente che “l’organizzazione degli uffici e la gestione dei processi di mafia ponevano questioni importanti per l’assetto ed il ruolo della magistratura” e che “il nuovo percorso era iniziato proprio nel 1982, segnando una svolta per la magistratura e per il CSM” [16].
Tuttavia, questa ricostruzione sarebbe incompleta, se non si facesse cenno all’opera – ora strisciante ora più visibile – di quanti opposero a tale modo di lavorare il richiamo strenuo alla vecchia filosofia che voleva il giudice istruttore una monade, che nella sua “turris eburnea” partoriva le indagini.
In particolare, ciò che veniva – in modo sempre più virulento – contestata era l’idea di Falcone e del pool che sul Giudice Istruttore., ai sensi dell’art. 299 cpp (1930), incombesse l’obbligo di indagare autonomamente pur in assenza di attività efficaci da parte del Pubblico Ministero e della polizia giudiziaria, giacché “il giudice istruttore ha l’obbligo di compiere prontamente tutti gli atti che appaiono necessari per l’accertamento della verità” [17].
Questo punto va – soprattutto oggi – messo nel necessario rilievo, perché fino a qualche anno addietro vi sono stati rinnovati tentativi di sottrarre al PM il potere di iniziativa nella ricerca della notitia criminis.
Si tratta, come ognuno può ben vedere, di un problema risalente ma che – all’evidenza – sta ancora tanto a cuore a “qualcuno” da non essere stato accantonato, nonostante sia cambiato il codice, siano scomparsi certi protagonisti e siano trascorsi alcuni decenni da quei momenti.
Dunque, da quel novembre 1983, il metodo di lavoro fu imperniato su una specializzazione sempre più accentuata e, soprattutto, su un continuo ed approfondito scambio di informazioni. Tra l’altro, si instaurò un sistema di confronto costante, in modo da permettere l’esatto riposizionamento in “tempo reale” delle conoscenze del pool sulle dinamiche di Cosa nostra.
In questo clima, e solo così, poté vedere la luce la prima sentenza-ordinanza dell’8.11.1985 e poté avere avvio il primo, storico, maxi-processo.
Tuttavia, la assoluta rivoluzione copernicana introdotta dal “metodo-Falcone” fu oggetto – da subito – di una azione di logoramento che, in certi momenti, divenne vera e propria “guerra”.
Sono a tutti noti, ormai, gli attacchi di qualsiasi natura portati a quel gruppo di lavoro (frattanto giunto a sei unità e mutato in alcuni dei suoi componenti), che culminarono nel noto episodio della mancata nomina di Falcone a Consigliere Istruttore di Palermo.
Non si trattò, infatti, soltanto di una fiera opposizione all’Uomo ed al Magistrato Falcone, ma della punta più avanzata ed arrogante dell’attacco al “suo metodo di lavoro”, ancor più significativo perché avveniva nel momento in cui migliori e storici sembravano essere i risultati ottenuti.
Il CSM, con quella scelta del 13 gennaio 1988, consegnò sé stesso ad una memoria collettiva non commendevole, come in plenum ebbero a dire chiaramente taluni dei 10 Consiglieri superiori, che votarono per Falcone.
Si trattò, invero, non della nomina ad un incarico direttivo, ma soprattutto di una chiarissima scelta di campo, avente per obbiettivo la “filosofia organizzativa” che lo Stato-giurisdizione si voleva dare nel condurre indagini sulla mafia.
Il “metodo-Meli” mostrò subito di essere il ritorno al medio-evo organizzativo ed investigativo, con lo smantellamento del pool e con la festosa révanche di chi mai aveva sopportato il sistema della specializzazione contro la mafia e di chi aveva sempre osteggiato l’uso dei collaboratori di giustizia.
Le sponde, istituzionali e mediatiche, in quegli anni furono numerose in ogni momento, di talché il pool dell’Ufficio istruzione fu distrutto.
La nota intervista rilasciata da Paolo Borsellino ai giornalisti Attilio Bolzoni (La Repubblica) e Saverio Lodato (L’unità) a metà luglio del 1988 [18], con l’immediata apertura di un procedimento para-disciplinare a suo carico da parte del CSM e l’altrettanto famosa lettera di Falcone del 30 luglio 1988 [19], con cui chiedeva al Presidente del Tribunale di assegnarlo ad altro incarico, sono la prova storica di questa affermazione.
Giovanni Falcone, ad ogni modo, forte delle sue convinzioni (a maggior ragione dopo che gli esiti processuali anche in appello sul maxi-processo ne avevano dimostrato la fondatezza) tentò inutilmente, sfruttando il sopraggiungere del nuovo codice di procedura penale del 1989, di esportare quel “metodo” nella Procura della Repubblica di Palermo: ma sappiamo tutti cosa accadde.
Attenzione, però: non bisogna pensare che l’azione di contrasto a lui venisse portata avanti in modo frontale. Nient’affatto.
L’azione più velenosa fu sempre carsica e burocraticamente ineccepibile, ancorché egualmente corrosiva, vischiosa, defatigante.
Per dirla con le parole di un magistrato (Alfredo Morvillo), che fu testimone attento e diretto di quella stagione, si ebbe cura di usare, sempre, il sistema delle “carte a posto”.
Ma Falcone, nonostante la sua indomita tempra di combattente, uscì sfibrato da quella guerra e – al fine di evitare un invischiamento quotidiano in quel “tritacarne” – decise, alfine, di accettare l’invito del ministro della Giustizia Martelli di andare a fare il Direttore generale degli Affari penali in via Arenula.
A partire dai primi di marzo del 1991, però, da quella mai sperimentata postazione strategica (cosa che nessuno di noi amici e colleghi allora comprese) attaccò nuovamente con la sua “rivoluzionaria” idea organizzativa sulle indagini di mafia, fino a farla divenire atto avente forza di legge (appena otto mesi dopo) con il DL n° 367, che istituì le DDA nelle procure della Repubblica capoluogo di distretto (21 novembre 1991).
Nella formulazione legislativa di quel “metodo” riversò non solo tutta la sua esperienza giudiziaria ma, soprattutto, tutti i prevedibili rimedi alle infinite “trappole” che erano state tese a lui (ed a quanti altri, invero pochi, credevano in quel sistema).
Ecco il perché della sua attenzione spasmodica alla formulazione dell’art. 70-bis cpp, sia con il forte riferimento alle attitudini ed alle esperienze specifiche per far parte della DDA (e non già all’anzianità che aveva fatto prevalere il Cons. Meli) sia – e soprattutto – con l’uso delle meditate parole: “il procuratore distrettuale cura, in particolare, che i magistrati addetti ottemperino all’obbligo di assicurare la completezza e la tempestività della reciproca informazione sull’andamento delle indagini”.
Ognuno di quei lemmi è il distillato dell’esperienza (molto spesso negativa) maturata da Falcone nel corso della sua vita professionale: verrebbe da pensare che dietro a ciascuno di essi c’era un volto, il ricordo di una nota burocratica oppure di un ostacolo fantasioso frapposto da qualcuno per impedire o ritardare un’indagine.
In altri termini, Falcone aveva ritenuto – con l’ottimismo della volontà che lo animava – di avere preservato (al massimo livello possibile) quel metodo di lavoro dal pericolo di una futura “cancellazione”, nel momento in cui lo consegnava alla forza vincolante della legge.
“Cancellazione” che egli aveva dovuto sperimentare sulla propria pelle ai tempi del Cons. Meli, allorché dovette assistere impotente (ottobre 1988) allo smembramento – con un tratto di penna – di importanti filoni di indagine che, con fatica inimmaginabile, egli aveva messo insieme negli anni precedenti per costruire un efficace mosaico investigativo (ad es., le carte dei cd. omicidi politici Reina-Mattarella-La Torre, dei famosi mafiosi e narco-trafficanti Cuntrera e Caruana, degli omicidi “strategici” della guerra di mafia (circa 200), degli appalti pubblici mafiosi, etc.).
Era la prima volta, comunque, che in Italia un “metodo di lavoro giudiziario” veniva stabilito per legge.
Ma, ucciso Falcone nel maggio 1992, quel metodo di lavoro trasfuso nelle DDA ebbe a subire, egualmente, degli ostacoli inattesi.
Intendo riferirmi alla circolare del CSM del febbraio 1993, con la quale in modo improvvido si ritenne di porre dei limiti temporali (6 anni) alla permanenza dei Sostituti Procuratori nelle DDA.
Ciò contrastava frontalmente non solo con la convinta idea di Falcone che le indagini antimafia dovessero essere condotte da magistrati sempre più specializzati, ma soprattutto con la lettera della legge istitutiva delle DDA, che aveva previsto un tetto massimo (peraltro di 8 anni) solo per la “funzione direttiva apicale” di Procuratore nazionale antimafia, attesa l’importanza dell’incarico.
Ma in quella circolare del CSM vi era (se possibile) anche qualcosa di più.
Nella relazione di accompagnamento, si diceva tra l’altro – per giustificare l’intervento para-normativo dell’organo di governo autonomo – che “appare necessario evitare sia la creazione di veri e propri centri di potere… sia una eccessiva personalizzazione di funzioni così delicate” [20].
Ritornava, così, inaspettatamente dopo le stragi il réfrain tante volte utilizzato negli anni Ottanta contro Falcone, secondo cui fare antimafia determinava l’accumulazione di “potere” da parte di potenziali “professionisti dell’antimafia”. Ma potere verso chi, verso che cosa?
La domanda è rimasta sempre priva di risposta.
Era un chiaro indice, però, del fatto che un apparentemente “semplice” metodo organizzativo per fare indagini sulla mafia era interpretato da taluni nel paese, anche a livello di CSM, come un problema di potere.
Le vicende successive, su questo terreno, sono altrettanto significative.
I tentativi degli anni successivi di fare modificare su un punto così qualificante la circolare sulle DDA sono purtroppo andati a vuoto, anche se (da ultimo nell’ottobre 1999) con maggioranze consiliari sempre meno vaste.
Tuttavia, il limite temporale attuale degli 8 anni (del tutto incoerente con le ragioni della legge istitutiva) ha raggiunto la dimostrazione massima della sua incongruenza soprattutto quando dalle DDA sono dovuti andar via per tale motivo, all’inizio degli anni 2000, proprio i magistrati più esperti e specializzati, per cui questa struttura (che avrebbe dovuto essere strategica nell’elaborazione di schemi di intervento investigativo) ha rischiato non solo di “burocratizzarsi” per i passaggi al suo interno troppo rapidi, ma ha perso quello slancio vitale che l’idea fondante di Falcone aveva pensato di attribuirle.
Successive decisioni dell’organo di auto-governo, poi, hanno ulteriormente aggravato tale quadro, allorché hanno vietato la possibilità di mantenere nell’incarico i Procuratori aggiunti.
Così, ancora una volta, i fatti hanno dimostrato che il “modello organizzativo” per i processi di mafia non è affatto neutro: anzi, la scelta del modello contiene già in sé l’opzione di risultato!
In conclusione, dunque, se a dire degli storici “memoria è ricordo collettivo” ma soprattutto “ricostruzione del contesto”, spero che questa mia sintesi possa contribuire a non fare disperdere né la “grande storia” di un grande Uomo, né quelle di una “lunga guerra” sui modelli organizzativi più efficaci per contrastare Cosa nostra, che insieme hanno formato, però, la storia giudiziaria dell’Italia e di Palermo.
***
Note
[1] Inizialmente composto, dal novembre 1983 al giugno 1986 – sotto il coordinamento (fino a marzo 1988) del Cons. Istruttore Antonino Caponnetto – dai Giudici istruttori: Giovanni Falcone, Paolo Borsellino (fino a giugno 1986), Leonardo Guarnotta, Giuseppe Di Lello (fino ad ottobre 1988); poi allargatosi, dal 1986, a Giacomo Conte (fino ad ottobre 1988), Ignazio De Francisci e Gioacchino Natoli.
[2] cfr. A. Caruso, “Da cosa nasce cosa”, ed. Longanesi & C., pagg. 160 segg.
[3] cfr. Testo Integrale della Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, vol. 1°, pag. 356; Ed. Coop. Scrittori – Archivio Italiano
[4] cfr. Testo Integrale Comm. antim., op. cit., pag . XXII
[5] cfr. sent. n° 1422/74 e n° 650/73 R.G. (complessive 168 pagg.)
[6] cfr. sent. n° 794/76 e n° 835/75 R.G. (complessive 127 pagg.)
[7] cfr. sent. n° 18/77 e nn. 32/76 e 9/77 R.G. (complessive 65 pagg.)
[8] cfr. sent. n° 44/78 e n° 54/80 R.G. (complessive 121 pagg.)
[9] cfr. op. cit. pag. 153
[10] cfr. capo b/2/Torr. (pag. 9) della sentenza, composta di appena 175 pagine.
[11] cfr. “Interventi e proposte” (1982-1992) pag. 90 – Sansoni Editore
[12] cfr. ibidem, pag. 145
[13] Giovanni Falcone, Paolo Borsellino (fino a giugno 1986), Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello (fino ad ottobre 1988); e poi, dal 1986, Giacomo Conte (fino ad ottobre 1988), Ignazio De Francisci e Gioacchino Natoli.
[14] cfr. sent. n° 1395/83 e n° 788/82 R.G. (complessive 1060 pagg.)
[15] cfr. C. Viazzi, “Governo della magistratura e riforma dell’ordinamento giudiziario” in Questione giustizia, 1983, pag. 16.
[16] cfr. Quaderni del CSM, anno 1, nn. 7-8, novembre-dicembre 1986.
[17] Questo concetto fu ben sviluppato da G. Falcone in un convegno di studi organizzato da Unità per la Costituzione (gruppo dell’ANM), tenutosi a Palermo il 17 dicembre 1984, in cui egli parlò di un “rimpianto dei bei tempi andati” da parte di taluni alti magistrati e di certi ufficiali di polizia giudiziaria.
[18] “Vogliono smantellare il pool antimafia: Fino a poco tempo fa tutte le indagini antimafia, proprio per l’unitarietà dell’organizzazione chiamata Cosa nostra, venivano fortemente centralizzate nel pool dell’Ufficio Istruzione. Oggi invece i processi vengono dispersi in mille rivoli”.
[19] “Ho tollerato in silenzio in questi ultimi anni in cui mi sono occupato di istruttorie sulla criminalità mafiosa le inevitabili accuse di protagonismo o di scorrettezze nel mio lavoro”.
[20] cfr. Circ. n° 2596 del 13.2.1993 (punto 5 della relazione illustrativa).
Fonte: Giustizia Insieme
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