Quella notte Santino Di Matteo mi raccontò la strage di Capaci
Il segreto dei segreti. La prima rivelazione sulla morte di Giovanni Falcone nelle parole di uno degli autori materiali. La mafia gli ucciderà il figlio di 13 anni, sciogliendolo nell’acido.
Trent’anni fa, il 23 settembre 1992, la mafia più feroce e organizzata di allora, Cosa nostra, realizzava a Capaci l’attentatuni (così nel gergo dei criminali), massacrando Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, insieme ai poliziotti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
All’attentatuni si ricollega l’esperienza forse più forte e intensa dei quasi sette anni che ho trascorso a Palermo come procuratore capo, nominato dal CSM su domanda che avevo presentato subito dopo le stragi del 1992.
Mi riferisco all’interrogatorio di Santino Di Matteo, un mafioso arrestato per gravi delitti (anche omicidi) commessi nel territorio di competenza delle Procura di Palermo. Un paio di volte Di Matteo mi fa sapere che vorrebbe essere sentito (mia la firma, come procuratore capo, in calce al suo ordine di cattura). Ci vado tutte e due le volte, ma in pratica non succede nulla. Anzi, dentro di me penso: se questo mi richiama una terza volta non ci vado proprio. Addirittura c’è chi mi raccomanda prudenza, ipotizzando che tutte quelle chiamate “a vuoto” siano solo espedienti per vedere se davvero mi muovevo e magari preparare qualcosa.
Ma poi, un giorno che sono a Venezia, gli uomini della Dia mi fanno di nuovo sapere che Di Matteo mi vuole vedere. Viene organizzato un rocambolesco e precipitoso viaggio e nel cuore della notte mi trovo di fronte a lui per interrogarlo.
Credevo che mi avrebbe parlato degli omicidi commessi con la sua cosca. In effetti comincia confessando di essere stato “combinato” in Cosa nostra circa quindici anni prima, assumendo in seguito ruoli di rilievo nell’organizzazione e commettendo i delitti contestatigli nell’ordine di cattura che teneva in mano. Ma subito aggiunge che di questi fatti parlerà poi, perché, dice, “Voglio parlare fin da subito di un fatto più grave… Capaci”.
È in assoluto la prima volta che qualcuno lo fa. Fino alle ore 04,10 del giorno 24 ottobre 1993 mi racconta per filo e per segno la strage di Capaci. Può farlo perché, confessa, lui era presente ed è stato uno degli esecutori materiali…
Provo un insieme di sensazioni che non avevo mai avvertito: da un lato l’orrore e l’emozione incontenibile per la rievocazione di un fatto tanto tragico e coinvolgente; dall’ altro la soddisfazione professionale per essere il primo a raccogliere la confessione di un episodio così influente sulla storia del nostro Paese.
Avverto in sostanza che il sacrificio di Falcone (che era ed è presente nel cuore di tutti) cominciava a trovare risposte anche in atti concreti di giustizia. Assieme, lo ammetto, a qualche dubbio.
C’è un particolare che quella notte non mi convince troppo. Di Matteo ha verbalizzato che, per far passare l’esplosivo sotto l’autostrada dove sarebbe transitato Falcone, i mafiosi avevano utilizzato, attraverso una canalina sotterranea, una specie di skateboard. Più per suggestione che per logica, la storia di un semplice strumento di gioco, destinato a portare divertimento, non morte, mi sembrava incompatibile con la feroce spietatezza di Cosa nostra. Anche questo particolare, invece, risulterà esatto e riscontrato dai colleghi di Caltanissetta (competenti per la strage) cui avevo subito trasmesso il verbale.
Purtroppo questo momento così determinante sarebbe stato terribilmente avvelenato dall’assassinio del figlio di Santino Di Matteo, il piccolo Giuseppe, tredici anni: sequestrato da Cosa nostra, tenuto prigioniero per 779 giorni, picchiato, torturato e alla fine strangolato e sciolto nell’acido, di modo che la madre non potesse neanche portare un fiore o dire una preghiera sulla sua tomba.
E tutto questo sol perché Giuseppe era figlio di suo padre, il pentito, il collaboratore di giustizia, che per primo aveva reso dichiarazioni spontanee, decisive per ricostruire il segreto dei segreti di Cosa nostra, la strage di Capaci. Una rappresaglia di stampo nazista, altro che “uomini d’onore”.
Una tragedia che ancora oggi ricordo con grande tormento.
Fonte: Corriere della Sera, 22/05/2022
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