Dalle Alpi a Palermo contro i boss
La storia di Torino si intreccia con la lotta alla mafia e l’impegno di giudici, preti e militari per la legalità
Il 2022 è anno di importanti anniversari per quanto concerne la storia dell’antimafia. Quarant’anni dalla morte di Pio La Torre (30 aprile 1982) e Carlo Alberto dalla Chiesa (3 settembre 1982). Trent’anni dalle stragi di Capaci (23 maggio 1992) e via d’Amelio (19 luglio 1992) nelle quali furono trucidati Giovanni Falcone, Palo Borsellino e quanti erano con loro quel giorno. Un intreccio di fatti tragici che per certi versi si potrebbero anche ricondurre alle parole “Torino chiama Palermo e viceversa”.
Dalla Chiesa era stato capitano dei CC a Palermo dove aveva arrestato molti mafiosi. Ma ecco cosa deve constatare quando si trova ad operare a Torino: “Ricordo che i miei corleonesi, i Liggio, i Collura, i Criscione si sono tutti ritrovati stranamente a Venaria Reale, alle porte di Torino, a brevissima distanza da Liggio con il quale erano stati da me denunziati a Corleone per più omicidi nel 1949. Chiedevo notizie sul loro conto e mi veniva risposto ‘Brave persone’. Non disturbano. Firmano regolarmente. Nessuno si era accorto che in giornata magari erano [andati] a Palermo o che tenevano ufficio a Milano o, chi sa, erano stati a Londra o a Parigi”. Con queste parole dalla Chiesa rileva come la pratica del soggiorno obbligato, superata dalla rivoluzione tecnologica, delle informazioni e dei trasporti, sia stata un boomerang, nel senso che i mafiosi ne avevano approfittato per ampliare l’area di influenza della criminalità, senza destare allarmi particolari, ben oltre il Mezzogiorno.
Tutto ciò era dovuto al fatto che i mafiosi arrestati anche per gravi reati (come i corleonesi di dalla Chiesa) venivano regolarmente assolti per insufficienza di prove. Per cui, non funzionando lo strumento della repressione penale, si era pensato di ricorrere a sanzioni di carattere amministrativo come il confino. A questo sistema di fatto controproducente aveva pensato di porre rimedio Pio La Torre (del quale dalla Chiesa era estimatore e amico) con la proposta di vietare e punire – oltre che i reati specifici volta a volta commessi – l’associazione mafiosa in quanto tale.
Per questa proposta La Torre venne ucciso e solo dopo l’omicidio di dalla Chiesa essa fu tradotta nelll’art.416 bis codice penale, in virtù della legge appunto intitolata a La Torre oltre che al ministro Rognoni.
Ma La Torre va ricordato anche per aver ideato le misure di contrasto all’arricchimento illecito dei mafiosi. Ed è su questo versante che si registra un importante collegamento con Torino.
Nel senso che un potenziamento decisivo della sua iniziativa si è avuto grazie a un prete torinese, Luigi Ciotti, e al milione di firme raccolte dall’associazione Libera (da Ciotti fondata) a sostegno di quella che diverrà la legge n. 109 del 1996, che introduce il riutilizzo a fini sociali e/o istituzionali dei beni confiscati alle mafie.
In questo modo – con la restituzione del “maltolto” – l’impegno antimafia ha assunto anche una forte valenza simbolica di compensazione (giustizia riparatoria) delle sofferenze inferte alla comunità. Aprendo nuove prospettive di sviluppo, dal momento che i beni sottratti ai mafiosi possono essere al centro di operazioni di rilancio economico.
Quanto a dalla Chiesa, va ricordato che egli fu nominato prefetto antimafia di Palermo sull’onda dei grandi successi ottenuti sul versante dell’antiterrorismo, con un’attività che aveva avuto nel Nucleo speciale dei CC di Torino il suo epicentro.
È lo stesso generale/prefetto che scrive: ”Mi sono trovato al centro di una pubblica opinione che ad ampio raggio mi ha dato l’ossigeno della sua stima e di uno Stato che affida la tranquillità della sua esistenza non già alla volontà di combattere e debellare la mafia ed una politica mafiosa, ma allo sfruttamento del mio nome” (va anche ricordata la cupa profezia di dalla Chiesa che lo si potesse “buttare al vento non appena determinati interessi saranno o dovranno essere toccati o compressi”).
Falcone e Borsellino sono ricordati soprattutto per il lavoro del pool dei giudici istruttori di Palermo, di cui essi erano cuore e cervello, che portò al capolavoro del maxi processo, cioè alla fine dell’impunità quasi assoluta di cui prima la mafia godeva.
Ebbene, una biografia del capo del pool, Nino Caponnetto, rivela che egli si era rivolto ai colleghi di Torino per conoscere come si fossero organizzati nel pool che per primi avevano creato nell’ambito del contrasto al terrorismo (il problema era come dei giudici istruttori, magistrati tipicamente monocratici, potessero operare in un collegio come di fatto era il pool).
Infine, sempre a proposito di Torino che chiama Palermo, vorrei ricordare (con scelta autoreferenziale, lo ammetto) una sapida battuta del grande Andrea Camilleri, il quale ha scritto che la mia nomina come procuratore di Palermo dopo le stragi del ’92 è stato il primo risarcimento dei Savoia alla Sicilia dopo l’unificazione…
Fonte: Corriere della Sera, Torino
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