Beni confiscati: costruire legalità, giorno dopo giorno
I beni confiscati sono un tassello fondamentale della lotta alle mafie: la restituzione alla società di quanto accumulato attraverso attività illecite. Le aziende sotratte alla criminalità organizzata sono quasi 3 mila, e sono in tutta Italia
A inventarli fu Pio La Torre, ucciso da Cosa Nostra il 30 aprile del 1982, poche settimane prima che il Parlamento approvasse la legge che porta il suo nome, che introdusse nel nostro ordinamento il reato di associazione mafiosa e la possibilità di sequestrare i beni acquisiti illegalmente. “Seguire i piccioli e colpirli là dove fa più male” sosteneva. Poi arrivò una proposta di legge di iniziativa popolare promossa da Libera – tra le poche – approvata da Camera e Senato, che conteneva le norme per il riutilizzo a fini sociali dei patrimoni dei mafiosi. Anche questo un modo di fare male.
Un patrimonio davvero ingente, quello nelle mani dello Stato e dato in gestione all’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati. Diversi sono stati assegnati ai comuni, che poi li affidano a soggetti del Terzo settore che li trasformano in mattoni della costruzione di legalità. Dai terreni portati via a Cosa Nostra a Corleone, trasformati in fondi agricoli affidati a cooperative, si producono vini, pasta, conserve, a quelli tolti ai casalesi che tra la provincia di Caserta e quella di Napoli costituiscono le Terre di Don Diana, dove si sperimentano forme avanzatissime di economia circolare, si dà lavoro a persone svantaggiate o disabili, si accolgono donne vittime di tratta o di violenza a cui si restituisce dignità anche attraverso il lavoro. E ancora, una villa confiscata al cassiere della Banda della Magliana a Roma divenuta la casa del Jazz, fino ad arrivare ad appartamenti e immobili che oggi ospitano i profughi ucraini scappati dalla guerra, e tanto altro ancora.
Secondo l’ultima Relazione semestrale al Parlamento sui Beni sequestrati o confiscati del ministero della Giustizia, al 31 dicembre 2021 i beni interessati da procedimenti di prevenzione registrati nella Banca Dati Centrale risultano complessivamente pari a 226.184, con un incremento di 10.189 unità rispetto all’anno prima. Sono beni immobili pari al 46,5 per cento, patrimoni finanziari l’11,8 per cento, beni mobili il 15,2 per cento, beni mobili registrati (autovetture e simili) il 19,1 e aziende il 7,3 per cento.
Negli anni della pandemia l’attività dei magistrati e delle forze dell’ordine non si è fermata, nel biennio 2020-2021 risultano complessivamente registrati in Banca dati ben 21.778 nuovi beni, di cui 11.393 nel primo anno e 10.385 nel secondo.
Tra il sequestro e la piena disponibilità dei patrimoni passa del tempo, non troppo, questo tipo di procedimento è assai più rapido di quello penale, ci vogliono in media tre anni affinché sia possibile restituire immobili e terreni alla collettività. I beni definitivamente confiscati sono 34.909. Il totale di quelli destinati è di 19.979, con un incremento di 2.051 rispetto a quelli comunicati al 31 dicembre 2020.
La maggior parte di beni confiscati si trova nel Meridione, ma ormai in tutte le regioni è presente un patrimonio sottratto alla criminalità organizzata che deve essere riutilizzato a fini sociali.
Sono 2.796 le aziende definitivamente confiscate. Di queste solo il 43 per cento sono attive, ben il 22 per cento hanno definitivamente cessato le attività e il 24 per cento sono in procedura concorsuale. Il 30,5 per cento delle aziende confiscate si trova in Sicilia, Il 18,5 per cento in Campania, il Lazio è la terza regione con il 14,5 per cento. Segue la Calabria con il 12,6 per cento e poi la Puglia con il 6,9 per cento. Il resto è suddiviso equamente nelle altre regioni.
A render chiaro quanto sia necessario alzare l’attenzione sui fondi a disposizione del Pnrr e costruire meccanismi per evitare infiltrazioni malavitose nell’economia sana, sono le categorie di aziende confiscate. Il 22,8 per cento è nel settore delle costruzioni, il 21,3 commercio all’ingrosso e al dettaglio, il 9,4 in attività di ristorazione e servizio di alloggio.
“Un patrimonio da utilizzare bene”
“Costruire la cultura della legalità riguarda tutti”. Lo sostiene convinto il Fabio Roia, in magistratura dalla seconda metà degli anni ’80, In passato, è stato pubblico ministero presso la Procura ordinaria del tribunale di Milano e componente del Consiglio superiore della magistratura dal 2006 al 2010. Rientrato in ruolo ha svolto le funzioni di giudice nell’area dei soggetti deboli e attualmente ricopre le funzioni di presidente di Sezione misure di prevenzione presso il Tribunale di Milano. Da sempre si occupa, come studioso e formatore, delle tematiche che riguardano la violenza contro le donne, è tra i fondatori dell’Osservatorio sulla violenza contro le donne dell’Università degli Studi di Milano. La restituzione alla società e il riutilizzo dei beni confiscati alle mafie sono uno dei mattoni di questa costruzione.
È da poco trascorso il 40esimo anniversario dell’assassinio di Pio La Torre per mano di Cosa Nostra, il dirigente sindacale e poi dirigente politico che ebbe l’intuizione di colpire i mafiosi in ciò che hanno di più caro, “i piccioli”; la normativa su sequestri e confische nacque così. Ma la sua applicazione si è ampliata. Riflette Roia: “È uno strumento molto efficace perché colpisce il patrimonio, sfrutta la velocità del procedimento di prevenzione che, al contrario di quello penale, è per necessità e per disposizione di legge più veloce”. Dal decreto di sequestro alla confisca definitiva, in genere, ci vogliono non più di tre anni.
Altra questione, invece, e altri tempi son quelli che riguardano le assegnazioni dei beni. “Un primo problema – illustra il magistrato – riguarda l’assenza di formazione e di informazione da parte dei Comuni, soprattutto più piccoli. Appartamenti, capannoni, villette possono essere una risorsa per il territorio ma occorre formare, appunto, funzionari e impiegati degli enti locali”. Il secondo problema è quello delle risorse. Spesso i manufatti dopo anni di abbandono hanno bisogno di cospicui interventi manutentivi. Infine, sottolinea Roia, occorre superare un altro ostacolo, forse il più difficile. Nei locali confiscati e assegnati a organizzazioni del Terzo settore che li riutilizzano a fini sociali, così come prevede la legge, trovano spazio comunità di accoglienza, case famiglie, centri antiviolenza, cooperative che consentono il lavoro a soggetti svantaggiati ecc., ebbene capita frequentemente che i “vicini di casa” o quanti potrebbero diventarlo non siano così felici, pongano ostacoli che inevitabilmente rallentano il percorso di riutilizzo dei beni.
“C’è un problema di coesione sociale”, sottolinea Roia che racconta una vicenda recente. Il tribunale di Milano ha alcuni appartamenti in un complesso immobiliare in Toscana, ha deciso di assegnarli a profughi arrivati dall’Ucraina, l’amministratore giudiziario del patrimonio ha però segnalato che i possibili acquirenti degli altri appartamenti, appresa la notizia dell’assegnazione ai profughi, si son tirati indietro e non hanno più comprato. “Sembra quasi che il mafioso dia meno fastidio di una comunità di accoglienza. Dobbiamo abbandonare la logica che tutto debba essere orientato al profitto. E dobbiamo tornare al senso della normativa sui beni confiscati, anche al suo valore simbolico”.
Il valore, simbolico e non solo, di queste norme, è riconosciuto dal Consiglio d’Europa, notizia di questi giorni, che ha deciso di mutuarlo per provvedimenti che consentano di utilizzare i beni degli oligarchi russi per finanziare la ricostruzione dell’Ucraina.
Insieme agli immobili e ai beni mobili, durante i sequestri vengono sottratti alla criminalità anche ingenti patrimoni economici e finanziari. Perché non usare, allora, questi fondi per manutenere e restaurare case e palazzi e così rendere più rapida e semplice la restituzione alla collettività? “Serve un provvedimento normativo – dice il presidente – ora tutte le risorse finiscono nel Fondo Unico per la Giustizia che viene usato per tutte emergenze che capitano, dai terremoti ai profughi, una sorta di bancomat”.
E arriviamo al Pnrr. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza destina 300 milioni per progetti di riutilizzo, riconversione e ristrutturazione dei beni confiscati alla criminalità organizzata. Il bando si è chiuso dopo un paio di proroghe, il 22 di aprile, e sono stati presentati oltre 600 progetti. Ma il bando era riservato solo alle regioni meridionali. Ora è vero che lì insistono molti beni sequestrati e confiscati, ma anche in altre regioni ve ne sono molti. Il Lazio è la terza regione, dopo Sicilia e Campania, per aziende definitivamente confiscate, la Lombardia è quarta per numero di beni. E la recente sentenza della Cassazione sul processo Aemilia, così come il recentissimo sequestro di beni nel Lazio per una inchiesta sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta, stanno a testimoniare come le mafie siano presenti in tutto il territorio nazionale.
Per Fabio Roia “è una buona notizia che siano stati presentati tutti questi progetti. Certo esiste una contraddizione, si tende a pensare che la criminalità organizzata investa laddove esiste. Ma intanto non è vero che le mafie investono solo dove sono presenti, da sempre Cosa Nostra ha interessi fuori dalla Sicilia, e poi – appunto – non vi è territorio dove le mafie non abbiamo allungato i propri tentacoli”.
Infiltrazioni e appalti sono gli altri capitoli del percorso di costruzione di legalità. I soldi in arrivo dall’Europa sono davvero tanti e fanno gola. Gli appalti, soprattutto lungo la catena dei subappalti, sono lo strumento. Ed è per questo che la guardia deve rimanere alta e vanno messi in campo strumenti e meccanismi di contrasto. “Credo ci vogliano delle sentinelle sociali, cioè persone che vogliono e credono nella legalità e operano in tal senso”. Roia non ragiona solo di procedure processuali e di reati, ragione invece del contesto sociale e di quanto ciascuno di noi potrebbe o forse dovrebbe mettere in campo. Noi singoli cittadini e cittadine, gli operatori economici, le aziende. “Laddove ci sono profili di concorrenza sleale c’è un danno per le altre aziende, quelle che invece operano bene sul territorio, rispettando le regole contrattuali, e gli oneri fiscali e previdenziali. Quando parlo di sentinelle sociali, ad esempio, mi riferisco anche a chi può accorgersi delle aziende che risparmiano molto sul piano della sicurezza determinando poi il tragico fenomeno delle morti sul lavoro, che è un fenomeno non accettabile nel 2022 per un Paese come l’Italia. L’imprenditore deve capire che l’investimento di legalità non è mai un investimento a fondo perduto, avrà un ritorno. E bisogna fare un investimento in cultura del singolo operatore economico, giudiziario, sociale e oserei dire anche del cittadino che deve essere la prima sentinella di allarme laddove si verifichino situazioni di opacità. Bisogna creare sempre queste spinte di contaminazione positiva”.
Pnrr. Tanti progetti per la legalità
Si è chiuso l’Avviso pubblico del Piano di ripresa e resilienza per l’assegnazione di 300 milioni per il ripristino e il riuso di beni confiscati alla criminalità organizzata. Silvestri, Cgil: “Il bando è stato un successo”
Il termine è scaduto alle 12 del 22 aprile, sono ben 605 i progetti presentati all’Agenzia per la Coesione territoriale che aveva emanato un Avviso pubblico per all’assegnazione dei 300 milioni, messi a disposizione dal Pnrr, per il recupero e la valorizzazione di beni confiscati alla criminalità organizzata presenti nelle regioni del Mezzogiorno.
I progetti, ovviamente, dovevano essere coerenti con lo spirito delle norme sui beni confiscati e il loro riutilizzo a scopo sociale, e infatti “ai fini della graduatoria finale saranno premiati con un punteggio aggiuntivo i progetti destinati a creare all’interno del bene confiscato centri antiviolenza per donne e bambini o case rifugio, oppure ancora asili nido o micronidi”. E questa è certamente una buona notizia, probabilmente il fatto che la titolare del dicastero per la coesione territoriale e il Sud sia una donna non è ininfluente.
I soggetti che potevano presentare le domande sono solo gli enti locali, Regioni, i Comuni, Province, Città metropolitane – anche in forma consortile o in associazione tra loro -, del Mezzogiorno che avessero già iscritto nel proprio patrimonio un bene confiscato. Una delle prime critiche al bando riguarda proprio chi poteva accedervi. La gestione dei beni è affidata a organizzazioni del Terzo settore, ma “la scelta di rivolgersi esclusivamente agli enti pubblici è dettata dalla necessità di rispettare le stringenti tempistiche previste dal Pnrr e di evitare, quindi, procedure che – in altri casi – sarebbero state più lunghe e complesse. Gli enti territoriali possono comunque coinvolgere sin da questa fase di progettazione gli enti del Terzo Settore. Tale eventuale coinvolgimento è anzi premiato da un apposito criterio di valutazione inserito nel bando”.
Dicevamo che le domande presentate solo oltre 600 e l’obiettivo è quello di realizzare almeno 200 interventi di valorizzazione, e i tempi sono assai stretti. “È previsto un anticipo pari al 15 per cento del finanziamento complessivo, seguito da pagamenti intermedi – a seguito delle fatture emesse – pari ciascuno ad almeno il 10 per cento del totale. Dopo il certificato di ultimazione dei lavori, sarà erogato il saldo. L’aggiudicazione definitiva dei lavori deve avvenire entro il 30 giugno 2023. Successivamente, i progetti d’importo fino a 600mila euro dovranno concludere i lavori entro il 30 giugno 2025, mentre quelli d’importo superiore avranno tempo fino al 30 giugno 2026”.
“Il risultato importante della partecipazione al bando per la valorizzazione dei beni confiscati alla mafia, affidato all’Agenzia per la Coesione da parte dei Comuni del Sud, non è altro che la dimostrazione di quanto la Cgil, insieme alle associazioni antimafia, da molti anni sta sostenendo. C’è la necessità urgente che lo Stato sostenga finanziariamente i Comuni e le associazioni del Terzo Settore per il riutilizzo di questi beni”. È il commento di Luciano Silvestri, responsabile Legalità e Sicurezza della Cgil nazionale. Che però aggiunge: “Il bando emanato è assolutamente insufficiente a sostenere lo sforzo enorme che tutta la società civile sta producendo per recuperare i beni sottratti ai sodalizi mafiosi. Anche lo strumento del bando, per come è stato concepito, è una misura inappropriata”.
La questione, infatti, è quella di dare continuità e certezza a quanti operano per restituire alla società quando sottratto a chi commette crimini. Per Silvestri “occorre mettere in campo uno strumento strutturale capace di dare certezza e continuità di spesa a un intervento da parte dello Stato di cui la lotta contro i poteri mafiosi sente tutta l’urgenza. Se infatti i progetti presentati non avranno la copertura finanziaria, si genererà nei Comuni esclusi e nella società civile una sorta di frustrazione, con il rischio di un ulteriore arretramento”. “Come la ministra Carfagna siamo dunque convinti della bontà dell’iniziativa assunta dal governo, perché ha reso evidente la presenza di un vuoto, adesso – conclude Silvestri – dobbiamo dare forza e sostanza a questa strada apportando i giusti correttivi”.
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