Boss: dall’ergastolo al “liberi tutti”. Stragi: le risposte che non avremo
Stravolgimenti. La riforma dell’ergastolo ostativo, dopo 2 decisioni della Consulta, mette sullo stesso piano i pentiti tipo Spatuzza e i mafiosi stragisti che non collaborano: potranno uscire dopo soli 19 anni e mezzo.
Conseguenze. Se l’ergastolo “riformato” tratta allo stesso modo i boss che collaborano e gli stragisti irriducibili, chi può avere ancora interesse a far luce sui punti oscuri di quella stagione? Il rischio è favorire l’omertà
La Cassazione ha annullato il provvedimento con il quale il Tribunale di Sorveglianza di Roma aveva rigettato l’istanza del noto collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza di essere ammesso al beneficio della liberazione condizionale, ritenendo ancora non pienamente concluso il suo “percorso di rieducazione” nonostante l’oggettiva rilevanza della sua collaborazione.
Tale vicenda offre spunti di riflessione che travalicano il caso specifico, investendo l’intera tematica della riforma delle norme sull’ergastolo ostativo che il Parlamento si accinge a varare. Come è noto la normativa attualmente vigente, approvata a seguito delle stragi del 1992, stabilisce un doppio binario nel trattamento penitenziario dei condannati all’ergastolo per delitti di mafia e per altri gravi reati ostativi. Solo coloro che collaborano con la giustizia sono ammessi ad usufruire delle misure alternative alla pena quali i permessi premio, la semilibertà e la liberazione condizionale. L’esperienza maturata sul campo attesta infatti che solo la collaborazione determina la sicura rescissione del legame tra il condannato e l’associazione mafiosa di appartenenza.
Tale assetto normativo è stato dissestato da due decisioni della Corte Costituzionale: la sentenza n. 253 del 2019 concernente la concessione dei permessi premio, e l’ordinanza n. 97 dell’11 maggio 2021 concernente la liberazione condizionale. In estrema sintesi, con l’ordinanza del maggio 2021 la Corte ha ritenuto irragionevole il carattere assoluto – insuscettibile cioè di prova contraria – della presunzione di legge in base alla quale solo la collaborazione con la giustizia è idonea a comprovare la rescissione del legame del condannato all’ergastolo per reati di mafia con l’associazione criminale, non potendosi escludere che vi siano casi nei quali pur in assenza di una collaborazione, il condannato abbia reciso tale legame, cessando così di essere socialmente pericoloso e divenendo meritevole di essere scrutinato al fine dell’ammissione alle misure alternative alla detenzione.
La Corte ha quindi sospeso il giudizio e ha dato termine al Parlamento sino al 10 maggio 2022 per ricalibrare la normativa in materia. Dopo mesi di elaborazione, la Commissione Giustizia della Camera ha depositato il testo definitivo della riforma che sarà sottoposto a breve alla definitiva approvazione del Parlamento. Tutto il dibattito pubblico che ha accompagnato l’elaborazione della riforma si è focalizzato esclusivamente sulle misure da adottare per evitare il pericolo di aprire le porte del carcere a ergastolani non collaboranti socialmente pericolosi, e, al tal fine, nel testo approvato dalla Commissione Giustizia è previsto che per i non collaboranti l’accesso alle misure alternative alla detenzione, sarà subordinato all’ acquisizione di prove che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi.
Senonché la vicenda Spatuzza alla quale si è accennato, e ancor prima la vicenda per certi versi analoga che ha riguardato il collaboratore Giovanni Brusca, hanno gettato un fascio di luce su un altro aspetto fondamentale della riforma rimasto in ombra. Perché un condannato all’ergastolo possa ottenere la liberazione condizionale non è sufficiente la cessazione della pericolosità sociale. L’articolo 176 del codice penale statuisce infatti che il condannato può essere ammesso alla liberazione condizionale solo se esistono prove che fanno ritenere sicuro il suo ravvedimento. È evidente che la cessazione di pericolosità e l’avvenuto ravvedimento sono concetti e istituti giudici non sovrapponibili. Un condannato può cessare di essere socialmente pericoloso, nonostante non sia per nulla cambiato nel tempo della sua carcerazione.
Si consideri ad esempio il caso di un ex terrorista condannato all’ergastolo per stragi e vari omicidi, che, pur non ripudiando il suo passato, decide di deporre definitivamente le armi cessando così di essere pericoloso, perché non sussistono più le condizioni sociopolitiche necessarie per proseguire la strategia terroristica, o perché il risultato che si intendeva perseguire è stato comunque conseguito per altre vie non cruente. O ancora il caso del mafioso che analogamente decida di recidere i rapporti l’associazione mafiosa non perché ne rinneghi i codici culturali, tra i quali quello fondamentale dell’omertà, ma solo perché stanco della lunga detenzione sofferta e desideroso di riacquistare la libertà, senza esporsi al rischio elevato di una nuova cattura in caso di ripresa dell’attività criminosa.
La vicenda Spatuzza ha evidenziato da ultimo la grande differenza che esiste tra cessazione di pericolosità e rieducazione. Egli ha iniziato a collaborare nel 2008 dopo che gli era stata inflitta la condanna definitiva all’ergastolo per le bombe del 1993 e per l’omicidio di padre Puglisi. Ha reso dichiarazioni di estrema rilevanza autoaccusandosi di tanti altri omicidi e della partecipazione anche alle stragi di Capaci e di Via D’ Amelio, ha consentito di pervenire alla condanna di altri corresponsabili di tali stragi che erano rimasti ignoti, ha consentito la riacquisizione della libertà a sette persone innocenti che erano state condannate all’ergastolo sulla base di prove falsificate, ha consentito la cattura di altri pericolosi esponenti della mafia ancora in libertà, impedendo così che gli stessi continuassero a mafiare, ad uccidere, a praticare violenza nei confronti di tante vittime.
Tale sintetico inventario dei benefici conseguiti dalla società dalla collaborazione di Spatuzza e di tanti altri collaboratori di giustizia, induce a riflettere sulle gravi e negative conseguenze che la imminente riforma dell’ergastolo ostativo nei termini sopra accennati, determinerà nella efficacia della risposta statale alla criminalità mafiosa. A seguito di tale riforma infatti il trattamento di collaboratori come Spatuzza sarà sostanzialmente parificato al trattamento che sarà riservato agli “irriducibili”, cioè ai condannati all’ergastolo per delitti di mafia, che pur essendo in possesso di informazioni preziose per conseguire risultati analoghi a quelli realizzati grazie a Spatuzza, si sono sempre rifiutati di collaborare.
Nonostante l’abissale diversità di comportamenti, sia gli uni che gli altri potranno usufruire della liberazione condizionale dopo 26 anni di carcere, che nella realtà si riducono a 19 anni e sei mesi per il cumulo con lo sconto di 3 mesi per ogni anno di detenzione che, ai sensi dell’art.54 dell’ordinamento penitenziario, si applica indiscriminatamente a tutti i condannati che hanno tenuto buona condotta in carcere. Diciannove anni e sei mesi che non decorrono dalla sentenza di condanna, ma dalla data di inizio della regime di custodia cautelare.
Tale regime riguarderà tutti i soggetti condannati all’ergastolo prima dell’entrata in vigore della riforma. Solo per gli omicidi di mafia commessi dopo l’entrata in vigore della riforma, i condannati potranno accedere alla liberazione dopo trenta anni nominali, riducibili a ventidue anni e sei mesi effettivi. Grazie al medesimo meccanismo cumulativo di sconti di pena, tutti gli irriducibili condannati all’ergastolo potranno inoltre ottenere permessi premio sino a 45 giorni per ogni anno di detenzione, dopo appena sette anni e sei mesi dal giorno dell’arresto. Tenuto conto che i tre gradi di giudizio hanno una durata media complessiva di sei-sette anni, dopo appena pochi mesi dalla sentenza definitiva, perduta la partita in sede giudiziaria, l’irriducibile potrà valutare conveniente scegliere la resa definitiva, iniziando a riprendere gradualmente una vita normale.
È evidente come la sostanziale parificazione di trattamento tra collaboranti e irriducibili, sortirà l’effetto di disincentivare la collaborazione di tutti coloro che hanno già riportato una condanna definitiva all’ergastolo. Perché accollarsi tutti i pesanti prezzi conseguenti alla collaborazione – l’autoaccusa di ulteriori delitti con conseguenti ulteriori condanne, l’esposizione al grave rischio di rappresaglie, l’obbligo di dichiarare tutto il patrimonio illecito accumulato ivi compresi i cespiti sfuggiti alla confisca perché sapientemente occultati – quando lo Stato a far data dal maggio 2022 concederà a tutti gli attuali ergastolani di uscire dal carcere a costo zero, solo a condizione di una definitiva e certa deposizione delle armi?
Poiché il destino vuole che tale riforma venga approvata proprio mentre si approssimano le celebrazioni del trentennale delle stragi, è il caso di ricordare che tra i potenziali beneficiari della nuova normativa vi sono una quindicina di esponenti di rango delle mafie che sono a conoscenza di fatti e di informazioni in grado di fare luce su tanti grandi buchi neri delle indagini sulle stragi del 1992 e del 1993.
Per ragione di sintesi mi limito a pochi esempi.
Chi erano gli importanti personaggi che indussero Salvatore Riina a mutare il piano di uccidere Giovani Falcone a Roma con un commando capitanato dal Matteo Messina Denaro, per eseguire invece una strage eclatante a Palermo in prossimità delle elezioni del nuovo Presidente della Repubblica? Soggetti talmente autorevoli e affidabili da indurre i fedelissimi di Riina ad assicurare gli altri uomini d’onore che Cosa Nostra aveva le spalle ben coperte.
Chi erano il supervisore che partecipò ad alcuni sopralluoghi per la strage di Capaci la cui identità era nota solo ad un ristretto numero di fedelissimi di Riina, e veniva invece celata anche ad alcuni degli altri uomini d’onore presenti, ai quali era interdetto di avvicinarsi a tale personaggio?
Chi erano i personaggi che chiesero a Salvatore Riina di organizzare in fretta e furia la strage di Via D Amelio prima che Borsellino potesse mettere a verbale dichiarazioni che avrebbero rivelato l’esistenza del complesso piano di destabilizzazione politica sotteso alle stragi, compromettendo anche alcuni mandanti eccellenti?
Chi erano gli infiltrati della polizia nella strage di via D’Amelio che Francesca Castellese scongiurò il marito Santo Di Matteo di non nominare ai magistrati con i quali questi aveva iniziato a collaborare, dopo che era stato rapito il loro figlio undicenne Giuseppe, ricordandogli disperata tra le lacrime che avevano un altro figlio da salvare?
Chi era il soggetto esterno a Cosa Nostra che, come ha dichiarato Spatuzza, presenziò alle operazioni di caricamento dell’esplosivo nella Fiat 126 utilizzata per la strage del 19 luglio 1992?
Chi erano gli uomini degli apparati statali presenti sul luogo della strage di via D’Amelio prima dell’arrivo delle Forze di Polizia, che fecero fare sparire l’agenda rossa nella quale Paolo Borsellino aveva annotato informazioni e rivelazioni che non dovevano in alcun modo venire a conoscenza della magistratura?
Si potrebbe continuare con varie decine di altre domande alle quali in tutti questi anni gli irriducibili condannati all’ergastolo, hanno deciso di non rispondere e che realisticamente, appaiono destinate a restare senza risposta.
L’entità e la gravità delle ricadute negative per l’intera società civile conseguenti alla imminente approvazione della riforma delle norme sull’ergastolo ostativo, impongono un supplemento di riflessione su un grande “rimosso” della riforma, riemerso alla luce grazie alla cartina di tornasole della vicenda Spatuzza.
Posto che neppure la collaborazione con la giustizia è sufficiente per dimostrare l’avvenuto sicuro ravvedimento del condannato all’ergastolo, dovendosi valutare altri complessi fattori, come si ritiene sia conciliabile il rifiuto di collaborare degli irriducibili con il ravvedimento? Più in particolare quali sono le motivazioni soggettive del rifiuto di collaborare apprezzabili al punto tale da ritenerle probanti di un avvenuto ravvedimento?
In ordine a tale quesito la Corte Costituzionale ha rimesso la palla al legislatore, limitandosi nelle ventitre pagine della corposa motivazione della ordinanza n. 97 del 2021, solo a fugaci accenni esemplificativi di casi nei quali la scelta di non collaborare può essere determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali.
Al riguardo la Corte ha indicato a titolo esemplificativo il caso in cui il condannato non può collaborare perché tale scelta potrebbe comportare rischi per la sicurezza dei propri cari. Si tratta di un esempio non pertinente al tema della rieducazione, tenuto conto che ove sia oggettivamente accertata l’impossibilità dello Stato di assicurare la sicurezza dei familiari del condannato a causa del loro numero elevato o del loro rifiuto di sradicarsi dal territorio di origine, si configura una causa oggettiva di inesigibilità della condotta di collaborazione che vale sia per il condannato che sarebbe disposto a collaborare motivato da una revisione critica del proprio passato, sia per quello che sarebbe disponibile solo per un mero calcolo utilitaristico.
L’articolo 4 bis, comma 1 bis, dell’ordinamento penitenziario attualmente vigente, già prevede che nei casi di accertata impossibilità o inesigibilità della collaborazione, il condannato all’ergastolo per reati ostativi può essere ammesso alle misure alternative alla detenzione anche in assenza di collaborazione, purché sia accertata la cessazione della sua pericolosità.
La Corte avrebbe potuto quindi limitarsi ad un mero intervento di ortopedia costituzionale, includendo anche il caso sopracitato citato tra quelli già previsti di accertata impossibilità o inesigibilità della collaborazione medesima, senza dissestare l’intero impianto portante dell’intera normativa in materia.
Ancora la Corte al fine di argomentare che la mancata collaborazione può essere motivata da ragioni diverse dalla persistenza di un legame con l’associazione mafiosa, accenna alla motivazione soggettiva di non esporsi al rischio di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati.
Anche tale esempio non è pertinente al tema della rieducazione, giacché il diritto al silenzio per evitare autoincriminazioni è parimenti riconosciuto sia al condannato rimasto legato alla organizzazione mafiosa, sia a quello che pur non collaborando ha deciso di rescindere i legami non perché si sia ravveduto ma per valutazioni meramente utilitaristiche, sia a colui che ha deciso di collaborare non avendo da riferire ulteriori fatti autoincriminanti oltre a quelli già giudicati.
Per analoghe ragioni non è pertinente al tema della rieducazione l’altro caso, pure accennato, del rifiuto di rendere dichiarazioni di accusa nei confronti di un congiunto o di persone legate da vincoli affettivi.
Resta dunque insoluto, il quesito iniziale: quali sono le motivazioni soggettive della non collaborazione compatibili e coerenti con il sicuro ravvedimento?
Si tratta di un quesito ineludibile ove si tenga conto che la Corte di Cassazione ha specificato che alla formulazione di un giudizio positivo di ravvedimento, si deve pervenire “in termini di certezza, ovvero di elevata qualificata probabilità confinante con la certezza” (Cassazione sent. nn. 18022 del 2007 e 9001 del 2009).
Ancora una volta il caso Spatuzza docet sul rigore di tale valutazione. La Corte Costituzionale non si è fatta carico di fornire indicazioni al riguardo ritenendo che esulasse dai suoi compiti e ha espressamente devoluto al legislatore il compito di integrare la norma sulla liberazione condizionale di cui all’art. 176 codice penale.
Al riguardo la Corte ha testualmente suggerito di prevedere, per esempio, che il condannato debba motivare le specifiche ragioni del suo rifiuto di collaborare, in modo tale che il Tribunale di Sorveglianza da tale motivazioni possa trarre importanti elementi per valutare la sussistenza o meno del sicuro ravvedimento. Nonostante tale esplicito invito della Corte, il legislatore ha glissato passando a sua volta la palla ai Tribunali di Sorveglianza.
Nel testo approvato dalla Commissione Giustizia ci si limita infatti ad accennare che i magistrati di sorveglianza potranno tenere conto delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, laddove l’avverbio “eventualmente”, per un verso autorizza e legittima l’irriducibile a mantenere il silenzio anche sulle motivazioni della mancata collaborazione come se si trattasse di superfluità, e, per altro verso, lascia carta bianca ai magistrati di sorveglianza nel decidere quali motivazioni soggettive del rifiuto di collaborare siano meritevoli di positivo apprezzamento ai fini della prova dell’avvenuta rieducazione, incrementando così il rischio di soggettivismi interpretativi e di contrasti giurisprudenziali esiziali, tenuto conto dell’estrema delicatezza e rilevanza della questione.
Per esempio, il rifiuto di collaborare dell’irriducibile che ritiene che ciò che conta è pentirsi a Dio e non dinanzi agli uomini, è indice di avvenuto e sicuro ravvedimento, tenuto conto che dell’elevatissimo numero di mafiosi assidui lettori della Bibbia tra un omicidio e l’altro (tra i quali anche tanti capi carismatici come Greco, Aglieri, Santapaola, Provenzano)? Il rifiuto di collaborare di chi considera la collaborazione come una infamità è conciliabile con il ravvedimento?
Si consideri inoltre la sovraesposizione a rischio dei magistrati di sorveglianza, ai quali nel disimpegno del legislatore dinanzi a tali temi cruciali, è stato attribuito nella sostanza un sorta di surrettizio potere di grazia. Certo è che i cittadini italiani a tutt’oggi non hanno avuto la grazia di avere spiegato né dalla Corte Costituzionale, né dal Parlamento, né dai tanti commentatori intervenuti nel pubblico dibattito, in quali casi sarà ritenuto che l’irriducibile è stato rieducato nonostante il suo pervicace rifiuto volontario di non collaborare.
Resta da chiedersi a cosa si deve tale fragoroso e prolungato silenzio? Forse al fatto che dopo che la Corte Costituzionale ha aperto il vaso di Pandora della riforma, i nodi sono venuti al pettine, e ci si rende conto della difficoltà di conciliare rieducazione e rifiuto di collaborare?
Forse all’imbarazzo di dovere ammettere che – al di là delle migliori intenzioni di tanti – si è aperta una falla che potrebbe condurre alla normalizzazione della cultura dell’omertà?
Quella cultura che bolla come infame colui che tradisce il codice di solidarietà al clan sociale di appartenenza accusando i suoi complici, e non ritiene infame invece colui che con il suo silenzio non prova alcuna ripulsa morale a consentire ai suoi sodali di continuare a uccidere, a estorcere, a seminare violenza?
Una cultura che travalica le associazioni mafiose e la classe criminale, ed è purtroppo ampiamente e trasversalmente disseminata anche nei piani alti della piramide sociale da sempre ostili al fenomeno della collaborazione. Piani alti che non hanno battuto ciglio quando proprio in questi giorni un autorevole commentatrice di un giornale nazionale ha testualmente definito il pentimento “umiliazione e tradimento” … un prezzo molto alto se non sei un mercenario dentro di te” .
* Articolo pubblicato in due puntate da Il Fatto Quotidiano in data 30/04/2022 e 01/05/2022
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“Stragi, depistaggi ancora oggi: li accerti chi viene dopo di me”
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