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Pio La Torre e la legge che colpì la mafia

Gian Carlo Caselli * il . Giustizia, Istituzioni, Mafie, Memoria, Politica, Sicilia, Società

Quarant’anni dopo l’omicidio. Oltre le celebrazioni. Il modo migliore di onorare la memoria del politico ucciso nel 1982 è un efficiente piano di riutilizzo dei beni confiscati alle cosche.

Il 30 aprile di 40 anni fa veniva ucciso dalla mafia, insieme all’amico e autista Rosario Di Salvo, il politico siciliano Pio La Torre. Dalla Chiesa, che ne era stato estimatore e amico, alla domanda di Giorgio Bocca: “Generale, perché fu ucciso il comunista  Pio La Torre?”, rispose: “Per tutta la sua vita; ma, decisiva, la sua ultima proposta di legge”.

Qualche “manina” aveva relegato la proposta in un remoto cassetto. Fu recuperata proprio dopo la morte di dalla Chiesa (3 settembre 1982) per essere convertita – sull’onda dell’indignazione e ribellione degli italiani onesti – nella legge 646 del 13 settembre 1982, intitolata appunto a La Torre, oltre che al ministro Rognoni.

Ed ecco che la mafia, di cui prima si negava spudoratamente l’esistenza, è finalmente vietata e punita come reato associativo nell’art. 416 bis codice penale. Così dotando forze dell’ordine  e magistratura di uno strumento di eccezionale importanza, senza del quale (parola di Falcone) pretendere di sconfiggere la mafia era come pensare di fermare un carrarmato con una cerbottana.

Nello stesso tempo la proposta di La Torre (fatta propria dalla legge 646/82) inaugurava una  “filosofia” ispirata alla necessità  di affiancare alle indagini tradizionali interventi sulla accumulazione delle ricchezze derivanti dall’agire mafioso.

Di qui i nuovi istituti del sequestro e della confisca dei beni appartenuti, direttamente o indirettamente, ai soggetti indiziati di far parte delle organizzazioni mafiose. Con obiettivi ben precisi. Non solo impedire che le risorse rimaste in possesso di tali soggetti alimentino altri crimini; non solo contrastare  il riciclaggio che inquina  l’economia legale e danneggia gli operatori onesti; ma anche indebolire in radice il potere e il prestigio delle cosche, posto che boss e picciotti temono sì di finire in  galera, ma ancor più di perdere i “piccioli”,  la ricchezza  che è la  spina dorsale (con la  violenza e l’intimidazione) del  loro potere.

La legge La Torre ha poi innescato vari interventi legislativi. Una svolta, decisamente positiva per la sua  originalità, si è avuta con la legge n. 109 del 1996, un’iniziativa popolare fortemente sostenuta da Luigi Ciotti e da “Libera” con la raccolta di un milione di firme: una spinta irresistibile che “costrinse” il Parlamento ad approvare la legge all’unanimità, introducendo il riutilizzo a fini sociali e/o istituzionali dei beni confiscati alle mafie. In questo modo – con la restituzione del “maltolto” – l’impegno antimafia  ha assunto anche una forte valenza simbolica di compensazione (giustizia riparatoria) delle sofferenze inferte alla comunità. Aprendo nuove prospettive di sviluppo, dal momento che i beni sottratti ai mafiosi possono essere al centro di operazioni di rilancio economico.

Tanto premesso, affinché il ricordo di Pio La Torre non sia solo celebrativo, occorre pure segnalare che le esperienze realizzate devono fare i conti con luci e ombre. Numerosi sono i casi positivi di beni destinati ad assistenza per anziani o per aggregazioni di giovani o per il recupero di tossicodipendenti, oppure sedi di forze dell’ordine; e di aziende, una volta in mano alle mafie, oggi gestite da cooperative che stanno sul mercato.

Nello stesso tempo vi sono purtroppo – nella applicazione della legislazione in materia di sequestri e confische – tempi  troppo lunghi e zone di grave ineffettività. Occorre essere impietosi nel giudizio e dire che si tratta di casi di sconfitta per lo Stato; anche per non lasciare tale legislazione  esposta al rischio di essere travolta da critiche superficiali o interessate.

Il modo migliore per fare memoria di Pio La Torre e delle altre vittime innocenti di mafia è  mettere in campo efficienti piani di riutilizzo capaci di intercettare le risorse, in particolare del PNRR, destinate alla valorizzazione di quanto lo Stato ha acquisito con le confische. Monitorando costantemente la situazione e mappando i bisogni (di uso sociale e/o istituzionale) dei vari territori.

Se ai provvedimenti di confisca segue una lunga fase di abbandono, è probabile che molti potranno dire “si stava meglio quando si stava peggio”. Non arginare questa sorta di “nostalgia del Faraone” equivarrebbe, di fatto, a svilire il sacrificio di Pio La Torre e di tutte le altre vittime di mafia. Un inaccettabile tracollo dell’etica della responsabilità.

* Corriere della Sera, 01/05/2022

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