Tra mafia e pace: la lotta di Pio La Torre vale oggi
Nel mentre il vento della guerra attraversa l’Europa, generato dall’aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina, ricorre il quarantesimo anniversario dell’assassinio di Pio La Torre, segretario regionale siciliano del Partito comunista. Un uomo, protagonista di primo piano della nostra storia più recente, che ha speso le sue energie per salvaguardare il valore universale della pace tra i popoli – che in questi giorni il pericolo della propagazione planetaria del conflitto bellico rende ancora più prezioso – e profondamente segnato lo sviluppo del contrasto alla criminalità mafiosa.
Alle 9,20 del 30 aprile 1982, in via Li Muli, una stradina stretta e poco frequentata di Palermo, un commando di mafiosi, costituito da Giuseppe Lucchese, Antonino Madonia, Giuseppe Greco “Scarpuzzedda” (non processato perché già deceduto) e Salvatore Cucuzza, a bordo di una moto e di un’auto, tese un’imboscata a Pio La Torre, mentre stava andando a bordo della sua Fiat 131 alla sede del Partito comunista, in compagnia dell’autista-guardaspalle Rosario Di Salvo.
Un delitto politico, punitivo e preventivo, esemplare per ferocia, che, grazie soprattutto al fondamentale apporto dei collaboratori di giustizia, ha un movente e ha visto l’individuazione dei responsabili quali esecutori e mandanti (i componenti della commissione provinciale di cosa nostra palermitana), in virtù di tre verdetti definitivi della Corte di Cassazione (l’ultimo dei quali del 4 marzo 2008). Tommaso Buscetta fu il primo. Il reggente del mandamento di Porta Nuova Salvatore Cucuzza, nel 1996, ha confessato il proprio coinvolgimento quale esecutore materiale e il suo racconto ha trovato puntuali conferme nelle precedenti rivelazioni di Francesco Marino Mannoia e di Giuseppe Marchese.
Rimane aperto l’interrogativo se vi sia stata una convergenza di soggetti esterni a cosa nostra rimasti nell’ombra nell’ideazione dell’assassinio. Al duplice omicidio seguirono in Sicilia e nel Paese giorni di sgomento.
La stessa sera giunse a Palermo il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, che raccolse l’invito del ministro dell’Interno Virginio Rognoni e del presidente del Consiglio Giovanni Spadolini di anticipare il suo insediamento quale prefetto della città.
A quest’uomo la società civile, a prescindere dall’appartenenza politica, deve essere profondamente grata. Il suo esempio di vita e il suo coraggio devono costituire oggi momento di riflessione per molti. Egli sapeva bene i rischi che correva, ma rimase al suo posto e proseguì nella sua azione, nonostante le minacce e la consapevolezza che prima o poi gliela avrebbero fatta pagare. Aveva presentato un progetto di legge rivoluzionario, suddiviso in trentacinque articoli, che prevedeva controlli patrimoniali per colpire le risorse finanziarie dei boss, l’ introduzione del reato di associazione di tipo mafioso, nuove disposizioni in materia di appalti e dirette a vulnerare il segreto bancario che per anni aveva agevolato il riciclaggio del denaro sporco. Si fece promotore di iniziative volte a fronteggiare la controffensiva della nuova mafia, che aveva iniziato dal 1979 una vera e propria carneficina.
Aveva redatto, insieme con Cesare Terranova, la relazione di minoranza della commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia in Sicilia, puntando l’indice accusatore contro Vito Ciancimino e i Salvo, quando i cugini erano nel pieno del loro potere. Aveva in sostanza capito che cosa era cosa nostra, quali erano la sua pericolosità e i suoi punti di forza: la capacità di produrre ricchezza illecitamente e i suoi rapporti con la politica e la pubblica amministrazione. Perciò aveva intrapreso iniziative davvero efficaci.
Non bastarono tuttavia il suo assassinio e la scia di sangue che ne seguì. Fu necessaria l’uccisione del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’autista Domenico Russo che li seguiva, per far approvare il 13 settembre la proposta di legge (che porta il suo nome e quello di Virginio Rognoni), la prima seria normativa antimafia dal dopoguerra, una vera rivoluzione copernicana che ha fattivamente contribuito all’erosione delle enormi ricchezze accumulate dalla criminalità organizzata, grazie all’introduzione delle misure di prevenzione patrimoniali, che oggi molti vorrebbero ridimensionare.
Per la prima volta il nostro Paese riconobbe l’esistenza della mafia, inserendo nel codice penale un articolo bis (il 416 bis), che cancellava finalmente la vergogna di tanti interessati proclami secondo cui la mafia era soltanto un’invenzione di politici in vena di provocazione.
Commemorare responsabilmente La Torre implica un richiamo alla società e alle forze politiche di oggi a non dimenticare quel che è accaduto, soprattutto quando il loro comportamento entra in rotta di collisione con valori insopprimibili e con la necessità di porre in essere iniziative anche legislative serie di contrasto alle strutture mafiose e alle relazioni che esse coltivano con le aree permeabili del potere.
C’è ancora un’altra ragione di enorme gratitudine nei confronti di Pio La Torre. Egli fu il promotore di una serrata campagna a favore del disarmo, lanciando una petizione popolare per la raccolta di un milione di firme, che toccò l’apice il 4 aprile 1982, nella manifestazione dei centomila a Comiso, per impedire la costruzione della base missilistica in prossimità dell’ aeroporto.
Con il suo operato e con le sue battaglie ha dato un contributo notevole al movimento pacifista mondiale. L’impegno e la condotta di La Torre sui fronti del contrasto alla criminalità mafiosa e del mantenimento della pace devono costituire un insegnamento esemplare in ogni tempo.
* Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Firenze
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 23/04/2022
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40° Anniversario dell’uccisione politico-mafiosa di Pio La Torre e Rosario Di Salvo 30.04.1982
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