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Senza elmetto. Pacifisti sì, ma dalla parte del Vietnam, del Cile, di Praga e oggi di Kiev

Nando dalla Chiesa il . Cultura, Diritti, Memoria, Politica, Società

“L’elmetto”. È diventata la parola magica, l’esorcismo buono per fare passare da un qualsiasi ingresso, principale o di servizio, le stupidaggini troppo grosse per entrarci da sole. Specie di mago Merlino per i “né con né con”.

Stai con la Resistenza ucraina? Ti sei messo l’elmetto. Dici che va aiutata a difendersi? Oddio l’elmetto. Noi no, noi no, mica ce lo mettiamo. Noi che pensiamo guardiamo ai destini di pace dell’umanità. La parola che tutto esorcizza esce dalle bocche in automatico. Vola sui giornali. Negli uffici. Si deposita sui tavoli delle trattorie. Aleggia nelle aule della politica. Chissà da dove è spuntato: non l’oggetto in sé, ma proprio il ragionamento che lo chiama in causa. Quali oscuri dedali psicanalitici l’hanno partorito.

Perché io, a proposito di storie italiane, davvero non ricordo che davanti all’aggressione al Vietnam qualcuno ponesse qui da noi il problema dell’elmetto. Si stava con l’“eroica” (e lo era davvero) resistenza vietnamita, e non c’era nessuno che ti accusasse di volerti mettere l’elmetto. La manifestazione di diecimila giovani davanti al “Corriere della Sera” chiedeva che venissero riconosciuti i diritti del popolo vietnamita, e stava con la sua resistenza. Senza se e senza ma, come si imparò a dire dopo.

Il popolo vietnamita vinse perché ricevette aiuti anche in armi, perché aveva grandi leader militari, per le bare che tornavano negli Stati Uniti, e perché ci fu un movimento di opinione in tutto il mondo schierato con le sue insopprimibili ragioni. Non un movimento guerrafondaio. Non un movimento con l’elmetto. Ma un movimento che, nella temperie del ’68, un’idea (“un’idea, un concetto, un’idea”…cantava Gaber) ce l’aveva, e ben chiara. Che l’indipendenza dei popoli e dei paesi non si tocca. Chiuso.

Né ricordo di avere sentito sbucare per sbaglio quella parola quando, nel settembre del 1973 e nei mesi seguenti, si raccoglievano fondi per la resistenza cilena, che non combatteva un nemico esterno ma una dittatura interna. Essendo entrato in università nei tempi in cui quell’idea c’era, condannai senza se e senza ma anche l’invasione di Praga. Non accusai Dubceck di essersi spinto “troppo in là” con la democratizzazione del suo paese, così da rendere l’invasione sovietica “inevitabile”.

E potrei continuare a raccontare quel che più generazioni hanno fatto, qui in Italia e non solo. Fino al grande movimento per la pace e i tre milioni di persone con Cofferati a Roma di fronte all’ “esportazione della democrazia” in Irak.

Nel paese che ha istituito ben tre giornate della memoria (ma forse ci vorrà la quarta), la memoria è assai debole. E anch’essa vacilla sotto le armi. Manca “l’idea, un concetto, un’idea” che guidi tutto il resto.

Per questo ho avuto un moto di sollievo interiore leggendo che Erri De Luca, con cui ho polemizzato da queste pagine sugli anni di piombo, è a Leopoli dove si è dichiarato partigiano della resistenza ucraina, e si è detto sicuro che Kiev, forte delle ragioni della storia e del suo popolo, resisterà. Gli è scattata dentro quell’idea. Che ad altri manca, come la memoria.

Pur di spiegare che una guerra patriottica come quella ucraina non può essere accostata alla Resistenza, un intellettuale abbastanza reputato è arrivato a dire che la Resistenza non fu affatto guerra patriottica, bensì internazionalista. Davvero i missili fanno male alle menti.

Perché basterebbe prendere le lettere dei condannati a morte della Resistenza per capire quanto in loro, insegnante, contadino o parrucchiera, ci fosse di amore per la libertà della propria “patria”. Basta prendersi i dispacci interni del movimento: “bande di patrioti si sono diretti”, la “Brigata Patrioti Piceni di stanza in Colle San Marco”….

Il fatto, temo, è che alla fine dovremo davvero metterci l’elmetto. Per difenderci dalle fesserie che ci piovono addosso.

* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 04/04/2022

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