Sociologia in treno. Narcisisti e indifferenti: le metafore e le nostre guerre lungo i binari
I treni. Materia di canzoni. Ciao ciao bambina, i treni di Tozeur, la locomotiva…Ma anche di guerre. La rete ferroviaria ucraina, forse l’attacco informatico a Trenitalia. Materia, infine, di studio sul campo per il sociologo. Specie se nei treni ci ha passato una vita.
Basta in effetti un viaggio per riconoscere tre personaggi da copione: l’indifferente, il buon (e onesto) samaritano, il narciso parlante.
Mi capita dunque di salire su un Napoli-Bologna (ritardo: 60 minuti) e di avere subito sete, così da fermare l’addetto al carrello dei caffè. Il fatto è che quando devo pagare trovo la giacca disperatamente vuota. Tocco, ritocco, il portafogli è sparito. Già una volta a Napoli me l’hanno rubato. Colpa mia, avevo lasciato la giacca appesa al gancio vicino al finestrino. Ma come avrà fatto stavolta il malvivente, sempre lui nella mia fantasia concitata?
Al solo pensiero di rifare i documenti, di bloccare la banca, o ripensando alle foto care andate perse, mi dispero. Il signore del carrello mi guarda con compassione. Mi dice di cercare pure, lo pagherò al suo ritorno.
La ragazza di fronte a me, di cui avevo apprezzato l’educato saluto all’arrivo e l’ormai rarissimo libro tra le mani, resta invece assolutamente indifferente. I gesti, i guaiti, non consentono equivoci. Sono un signore in preda alla disperazione. Forse è straniera, chissà. Ma nemmeno uno sguardo di circostanza sotto i sedili, nemmeno un “can I help you?”, un sorriso di pena.
Torna il signore dei caffè. Gli dico che il portafogli l’ho perso. Lui mi risponde di non preoccuparmi, di tenermi pure l’acqua. Finché mi schizza l’idea senza speranza: ma vuoi vedere che dopo aver pagato il taxi ho infilato il portafogli nella inutile tasca interna del giaccone? Ultima prova senza fede e il maledetto salta fuori. Lo comunico subito a mia figlia che ha iniziato a fronteggiar le pratiche.
La ragazza di fronte (siamo lei e io) sempre muta e impassibile, occhi inchiodati alle sue carte come avesse davanti un fantasma inodore, incolore e insapore. Penso che dovrò pagare l’acqua e dare una mancia a quel signore così gentile e solidale. Lui ripassa, ma la mancia non la vuole, non se ne parla, l’ho aiutata volentieri, solo il prezzo dell’acqua con scontrino.
Il tempo di chiudere con il raptus, di aprire il computer per lavorare, e mi accorgo di essermi imbattuto nell’ennesimo esemplare ferroviario di narciso parlante. Uno di quei tipi capaci di affabulare se stessi parlando per ore e ore ad alta voce al telefono o al computer. Che gli incolpevoli passeggeri sappiano bene la sua modernità, le sue virtù, e i suoi stratosferici pensieri. Il mio esemplare si chiama Nobili e ha un doppio nome, il secondo dei quali è Oro. Lo cito solo per non offenderlo, perché la privacy è la sua peste, visto che lo ripete per almeno tre ore ininterrottamente davanti a decine di sconosciuti che potrebbero riprenderlo o registrarlo.
Ha un inconfondibile accento romano e per ragioni di lavoro parla anche lo spagnolo, così almeno assicura agli interlocutori. Sgonfia leggermente i toni, vedi un po’ quante spiegazioni possibili, quando la procace signora che gli sta davanti si alza e sparisce. Quando scendo a Bologna il tipo è ancora lì a spiegare il mondo al malcapitato di turno.
E ora, a proposito di spiegare il mondo, eccovi qua un rovello personale…
Insegno e ho fondato la sociologia della criminalità organizzata. Guido un centro di ricerca universitario che ha lavorato e lavora per le massime istituzioni. Dico cose sì scomode, ma alla prova dei fatti vere.
Eppure quando in tivù si parla di mafia non vengo mai invitato, nemmeno gratis. Non c’è bisogno che lo ordinino i partiti, come per il professor Orsini. Ci pensano da soli conduttori e giornalisti. Da decenni. Come mai? Come mai non è argomento che scuota le libere coscienze? Si accetta dibattito.
* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 28/03/2022
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Educazione alla legalità. Un’esperienza italiana che tanti nel mondo ci invidiano
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