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La guerra, i ragazzi e noi. Parte seconda

Donatella D'Acapito il . Cultura, Giovani, Giustizia, L'analisi, Politica, Società

“Ma la guerra c’è ancora, prof?”. A poco più di un mese dall’inizio dell’invasione ucraina, questa è la domanda con cui un mio alunno mi accoglie, diventando in un momento lo specchio impietoso della società.

Abbiamo passato giorni in cui tutto era concitato e concentrato sulle informazioni che arrivavano da Kiev, Mariupol o Kharkiv. Abbiamo imparato la geografia dell’est Europa, i nomi di città di cui ignoravamo l’esistenza e quello di un presidente che ora conosciamo meglio del nostro. Ma oggi questa notizia comincia ad avere meno appeal.

E non perché le cose siano si stiano via via risolvendo, ma perché purtroppo ci siamo assuefatti e, per mantenere vivo l’interesse, si deve trovare qualcosa che alzi l’asticella del dolore. Gli psicologi dicono che è un normale meccanismo della mente. “Ci si abitua a tutto”, mi ricorda una collega. E purtroppo è vero.

Sappiamo che la guerra c’è. Abbiamo capito che questa “operazione speciale”, per dirla come pretende il regime di Putin, non ha avuto i tempi da lui previsti. Sappiamo dei profughi e delle fosse comuni che gli stessi cittadini sono costretti a scavare per sottrarre i cadaveri allo sciacallaggio dei cani randagi. Sappiamo delle perdite dei soldati russi e delle telefonate ufficiali che vengono fatte alle famiglie per annunciare la morte “da eroe” del proprio figlio. Ma più di tutto ci ricordiamo di un pericolo che incombe ancora sulla testa del Vecchio Continente.

E allora perché fra i miei ragazzi c’è chi mi chiede se la guerra è finita? E perché mi sembra che questo qualcuno, in realtà, non sia una mosca bianca?

Siamo una società bulimica di notizie: ingoiamo informazioni, senza assimilarle, per poi vomitarle in commenti alla buona in attesa della prossima abbuffata mediatica.

“In guerra la verità è la prima vittima”, scriveva Eschilo, e a far gola sono spesso le dietrologie della disinformazione che promettono di “svelare quello che i giornalisti non vogliono farci sapere”. Non lasciamo sedimentare quello che leggiamo o vediamo: cerchiamo solo un sapore nuovo e più forte.

E i ragazzi sono più onesti di noi nel palesare questa esigenza. Forse perché, da nativi digitali, sono abituati a una tempesta di immagini in cui si fondono pubblico e privato, che scandalizzano per la loro cruda esibizione. O forse perché non hanno più le sovrastrutture dei giovani del Novecento, che sentivano l’obbligo morale di condividere le sorti del mondo.

So che il mio è un giudizio parziale, perché riguarda solo la fetta di giovani con cui ho a che fare, ma sono loro che scoprono i miei pezzi da adulta inadeguata.

Non ho tutte le risposte. E se le ho, non sono sempre all’altezza della situazione. Loro fanno domande rapide, io ho bisogno di tempi lunghi per restituire il senso delle cose.

“Questa guerra è vicina, sì, ma non è a casa nostra. Io non me la sento addosso. Di tragedie, prof, ce ne sono tante. Mica la possiamo risolvere noi la guerra”, mi dice lei che è seduta al primo banco. “Proprio perché ce ne sono tante, di tragedie, potremmo provare a fare qualcosa”, rispondo. “Sì, stavolta. Perché non è che i politici dicono di farlo sempre”.

Touché.

Ecco: lo specchio impietoso della nostra società. Non riesco a replicare senza provare un minimo di disagio. Non posso neanche appellarmi al passaggio dell’ultima lettera ai figli scritta da Ernesto Guevara – “Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo” -, perché noi adulti non abbiamo dato un buon esempio, in questo senso.

È forse questa differenza di condotte che porta poi i ragazzi a cercare altri modelli, a cercare l’uomo forte dietro il quale nascondersi: se non siamo coerenti, se mostriamo di essere capaci di agire solo quando in ballo ci sono i nostri interessi, come possiamo chiedere loro di fare qualcosa di diverso? Come possiamo stupirci che non venga messo un freno agli individualismi, gli stessi che sono alla base di qualsiasi aggressione, militare e non?

Continuo ad ascoltare i miei ragazzi e a ricordare loro che le guerre sono brutte, sempre, e che non c’è una gara del dolore a cui è bello iscriversi. Ma ci può essere un sano mettersi in gioco, un sano interrogarsi su cosa è possibile fare, anche se fino ad ora non si è fatto nulla.

La pace può iniziare da adesso e da qui. Per quella con la P maiuscola, invece, si dovrà attendere che ci siano spiragli pronti a tradursi in qualcosa di più concreto.

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La guerra, i ragazzi e noi

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