PPP ha 100 anni. Un amico difficile e scomodo
Troppo spesso il racconto della relazione, bella, intensa, profonda, che si stabilì tra Pier Paolo Pasolini e la Pro Civitate Christiana, sembra ancorarsi esclusivamente nel porto di quella splendida avventura che fu la realizzazione de Il Vangelo secondo Matteo.
Tante volte – e a ragione – abbiamo raccontato della riluttanza di Pasolini ad aderire al primo invito al convegno dei cineasti e poi del suo confinarsi volutamente (e solitariamente) in camera, dell’impatto fortuito o «diabolico», come dirà lui stesso, col libro dei Vangeli lasciato sul comodino, della sua idea confidata al presidente della Pro Civitate Christiana di voler girare un film su Gesù e poi ancora del travaglio della sceneggiatura, della scelta della location e delle riprese con l’affiancamento di don Andrea Carraro e Lucio Settimio Caruso.
Così come abbiamo accennato alle spietate contestazioni e ai richiami che giunsero all’indirizzo di Assisi così come a quello del regista da ambienti ostili e contrapposti.
Ma ciò che merita d’essere approfondito dopo tutti questi anni è il coraggio che portò due realtà tanto distanti e inconciliabili per l’Italia e il mondo di quegli anni a schiudersi l’uno all’altro, ad accogliersi, ad incontrarsi a imparare a stimarsi e a fidarsi.
Solo intelligenze elevate come quelle di Pasolini e don Giovanni Rossi potevano pervenire a tanto. Al punto da correre anche il rischio di lasciarsi cambiare dall’influenza intellettuale e spirituale reciproca. Se riuscissimo per una volta a recuperare la sapienza dei bambini, dovremmo avere il coraggio di dire che ne nacque semplicemente un’amicizia. Perché l’amicizia è esattamente il misterioso emporio di tutte quelle cose. E se fossimo saggi diremmo che l’amicizia sarebbe amputata senza la stima. E i nostri due naufragarono tanta nell’una quanto nell’altra. E come avviene in questi casi non è soltanto la frequentazione che accende quella luce, ma una sintonia particolare che sembrava essere custodita da sempre in un qualche forziere.
Le circostanze misteriose dell’esistenza, un giorno, ne hanno fatto ritrovare la chiave antica e hanno dato respiro allo scrigno. Lo dice la filigrana delle lettere anche nella nuova versione aggiornata e pubblicata di recente da Garzanti col lavoro certosino di Antonella Giordano e Nico Naldini.
E non sono certo poche le scoperte che lanciano sfide e provocazioni a una lettura non distratta in cui si rinfrange tutta la poesia pasoliniana come nella pellicola, nei quadri, nei romanzi, nelle poesie stesse e poi nei saggi, nei servizi giornalistici, nei documentari e persino nel gioco del calcio.
In una lettera del 1962 a Lucio Caruso, scusandosi per la banalità di non essere riuscito a fermarsi ad Assisi, arriva a scrivere: «La mia vita è il contrario della vostra, benché la vostra sia in fondo il mio ideale di vita» (P.P.Pasolini, Lettere, 1233). L’ideale cui fa riferimento non è la quiete controllata e scandita dalla preghiera di un monastero profumato d’incenso, ma piuttosto quell’impasto di spiritualità e ingegno, arte e contemporaneità, preghiera sì ma che sa portarsi dentro il grido, l’affanno, le lacrime e le speranze della quotidianità delle borgate del mondo.
E questo – si badi bene – avviene quando il Concilio Vaticano II è stato solo convocato e non è ancora iniziato. Anzi, nessuno avrebbe potuto prevedere la piega che avrebbe preso quell’assise da lì a poco con la rivoluzione che avrebbe comportato e, in qualche modo, anticipato anche in seno alla società.
In questo senso è molto interessante quell’interlocuzione proprio perché non è una semplice interlocuzione ma piuttosto due incontri e due abbracci in uno. Da una parte è l’incontro di due mondi che si sarebbero detti inconciliabili, e ineluttabilmente condannati all’inconciliabilità con tutta la zavorra ideologica, il contesto, le morali, le appartenenze e, persino le contrapposizioni cui accennavo, ma dall’altro c’è la rivelazione imprevista dei rispettivi mondi interiori. L’intesa che venne a crearsi fu profonda a tal punto da generare l’apertura degli stati d’animo e del sudore della vita, delle sofferenze nascoste e della sete di altro e dell’altro.
Notevole che in una delle lettere di pochi anni appresso, Pasolini arrivi a scrivere spietatamente: «Lo so, sono un amico difficile e scomodo». Non si capirebbe altrimenti quella scheggia che Pasolini lascia cadere sotto gli occhi di don Giovanni nella lettera del 20 ottobre dello stesso 1962: «Sto lavorando, lavorando (alla Ricotta e alla Rabbia) con disperazione, come mi possedesse qualcosa. Lavoro come qualcuno si droga. Lei le sa, le ragioni di tutto questo: io so che cosa lei sa – ma questi nostri sapere, scorrono paralleli e, forse, incommensurabili» (ibid., 1237). Sono parole che dicono di una confidenza e, nello stesso tempo, del rispetto, della differenza e della somiglianza, in una sola parola: dell’esistenza o, forse, dell’umanità.
D’altra parte, concordando con la felice intuizione di uno studioso profondo del mondo pasoliniano qual è stato Gianni Scalia, tutta la vita di Pasolini è stata segnata a fuoco da «persecuzione ed esecuzione». Ma la prima persecuzione non è stata generata dall’inimicizia degli ambienti che non potevano tollerare l’anomalia geniale di un irredimibile irregolare come Pasolini, quanto dai mostri interiori con cui si è trovato a combattere per tutta la vita.
Anzi, le critiche, le contestazioni e gli attacchi di fascisti, bigotti, censori, invidiosi e gelosi, borghesi, perbenisti, moralisti, comunisti, dogmatici d’ogni chiesa… sono stati poca cosa rispetto alla fatica di convivere con se stesso, con le proprie paure e le proprie irregolarità, che non riguardavano soltanto la sua omosessualità e la condotta morale, ma quell’indecifrabile mondo interiore generato dall’incrocio di inestricabili lacci che lui s’era impegnato a sfilare senza mai riuscirci fino in fondo.
Ecco, oserei affermare che l’incontro con la persona di don Giovanni Rossi e l’amicizia con la Pro Civitate Christiana costituirono una sorta di terapia antalgica o terapia del dolore che è quell’arte medica che riesce a «riconoscere, valutare e trattare nella maniera più consona il dolore di tipo cronico».
Quella sorta di terapia era composta di capacità di accoglienza e comprensione, mancanza di condanne e pregiudizi, confronto intellettuale aperto, sincero e franchissimo. Era fatto di affetto sincero.
Più che il travaglio affascinante della produzione de Il Vangelo secondo Matteo, particolarmente illuminante al riguardo è l’acceso confronto tra Pasolini e i responsabili del settore cinema della Pro Civitate su Uccellini e uccellacci.
La discussione non fu affatto melense – tutt’altro! – non risparmiò critiche accese che arrivarono prima alla richiesta di non girare assolutamente il film in Assisi e poi addirittura al consiglio di rinunciare al film tout court. La critica viene proposta in modo articolato e dettagliato, con una lettura particolareggiata della sceneggiatura che intravede la sua traduzione filmica. Il confronto è alquanto serrato ma sempre rispettoso. E se non fosse stato così, mai più Pasolini avrebbe aperto questa linea di confronto alla quale non era peraltro tenuto.
E anche qui c’è una lettera dell’ottobre 1965 in cui don Giovanni Rossi apre con un inconsueto «Mio carissimo Pierpaolo – che prosegue – la tua lettera mi ha vivamente commosso. Voglio subito rassicurarti che l’amicizia, la stima, la preghiera nostra per te non avranno mai un’attenuazione, e saranno sempre più cordiali» (ib., 1316).
Affetto misto a cautela e a rassicurazioni perché la relazione non si è mai lasciata andare all’asfalto liscio della reciproca approvazione, quasi complice. Tutto il contrario. Il confronto ha toccato anche caratteri aspri e senza sconti e questa era esattamente una di quelle fasi. Ma colpisce che il composto e rigoroso don Giovanni Rossi apra la lettera con quelle parole e concluda con «Con la più affettuosa cordialità alla tua santa Mamma e a te augurando ogni bene. Ti bacio. D. Gio. Rossi» (ib., 1316).
Quello tra don Giovanni Rossi e Pier Paolo Pasolini è stato l’abbraccio tra due cuori geniali, mai rassegnati, profeticamente e puntualmente sempre oltre.
* Presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi
Fonte: Rocca n°01 – 1 gennaio 2022
Rocca è la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi
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