La guerra, i ragazzi e noi
Una guerra vicina eppure lontana. Una guerra arrivata all’improvviso, che ha sconvolto non solo l’opinione pubblica e i media, nel loro flusso informativo, ma che ha cambiato anche quello di cui si parla in classe.
Forse prima di noi gli adolescenti erano pronti a sentire parlare di guerra, ma non di una di quelle mondiali, che si studiano per gli esami e sono sempre al centro delle tesine. Né di una di quelle dell’antichità, che si traducono dai classici o che finiscono per diventare film epici di Hollywood.
I nostri ragazzi erano pronti a sentir parlare di guerra perché su Tik Tok, il loro canale all news preferito, giravano già fantomatiche immagini di navi russe al largo delle coste siciliane e teorie di chissà quali strateghi che spiegavano loro come, da un momento all’altro, la degenerazione della situazione era già stata scritta e descritta pure dai Simpson.
Se non fosse drammatico il quadro che abbiamo davanti, ci si potrebbe ridere su. Ma questa non è una finzione. Non è Fortnite. E loro devono conoscere e sapere, perché le conseguenze di ciò che sta accadendo adesso ricadranno inevitabilmente su di loro.
Ecco: conseguenze. Un concetto con cui i nostri ragazzi non hanno familiarità.
Perché forse è questo il male di cui soffre la loro generazione: nella convinzione che tutto sia rapido, che tutto si consumi in poco tempo per poi sparire, non sono più abituati a pensare che un’azione generi una reazione. Tutto ciò che fanno e producono dura il tempo della visibilità da social. Non è la retorica degli adulti che non accettano il cambiamento, ma la tragica fotografia del mondo illusorio ed effimero che si è andato creando con la scusa dell’intrattenimento. Perché se all’intrattenimento non affianchi nient’altro, allora quest’ultimo si prende tutto lo spazio che trova, come fa l’acqua.
I ragazzi delle periferie del mondo hanno a che fare con la guerra tutti i giorni e non si sentono né ascoltati né rappresentati, se non da chi si mostra (e non è detto che lo sia) peggiore di loro. Questo spiega il largo seguito di certi personaggi mediatici o il fatto che gli adolescenti siano disposti a rendere pubblico una grossa fetta di privato.
Come può, allora, un altro conflitto toccare chi in guerra lo è da anni? Per quanto tempo queste compagne-vittime possono trovare spazio nell’intimo di chi soffre? Perché il dolore degli altri può aiutare a relativizzare il proprio, questo è vero, ma bisogna avere gli strumenti per poterlo fare. Se non si è stati oggetto di compassione – nel senso etimologico del termine – la si può provare per gli altri?
Ho visto in classe l’interesse per i fatti ucraini scemare già dopo qualche giorno, perché le bombe o i morti non erano più percepiti come una novità e perché, bene o male, la vita va avanti. C’è chi parla dell’opportunità della terza guerra mondiale con incoscienza, vedendola come la possibilità di prendere finalmente quelle armi che favoleggia d’aver tenuto in mano. C’è chi non ne vuol sentire parlare per non angosciarsi e chi dice che, finché la guerra non arriva a noi, è bene cercare di godersi la vita.
Difficile mantenere la barra e non liquidare tutto come il solito atteggiamento superficiale. Bisogna ricordarsi della vocazione della scuola, che in primis dovrebbe essere quella di formare le donne e gli uomini di domani. Allora è giusto stravolgere i programmi e parlare di quello che sta succedendo a nemmeno tre ore di volo da qui. È giusto interrogarsi con loro sul perché stiamo dando più spazio a questo conflitto che agli altri che quotidianamente sconvolgono regioni lontane da noi.
Può diventare questo il momento dell’esercizio della compassione. Non c’è una gara delle sofferenze, ma dobbiamo ammettere che quando le cose ci arrivano addosso inevitabilmente pesano di più.
Siamo figli di quel pensiero occidentale che contempla le guerre sul campo come evento fattibile solo nei luoghi lontani da noi e dalla nostra democrazia. E in nome del nostro portato valoriale pretendiamo di dire cosa è meglio per gli altri e quale sia la soluzione che dovrebbero essere disposti ad accettare in nome di un (nostro) bene superiore.
Penso all’Ucraina e ritorno ai versi semplici e puri di Gianni Rodari che, nella sua “Promemoria” ci ricorda che: “Ci sono cose da non fare mai/ né di giorno né di notte/ né per mare né per terra: per esempio la guerra”. Penso a questo e finisco su Giorgio Gaber che cantava: “Non insegnate ai bambini/ la vostra morale/ è così stanca e malata/ potrebbe far male. (…) Non insegnate ai bambini/ ma coltivate voi stessi il cuore e la mente/ Stategli sempre vicini/ date fiducia all’amore il resto è niente”.
Non è facile insegnare – queste due settimane ci hanno messo a dura prova. Come si fa ad essere dei maestri? Non lo so. A volte il solo paragone che ritengo calzante è quello del genitore. Non ho mai trovato dei corsi di formazione che possano andar bene una volta per tutte.
Perché si impara a fare l’insegnante decidendo di farlo sul serio, giorno dopo giorno, anche quando senti che la classe ti va stretta. E lo si fa mettendoci più cuore di quello che i programmi prevedono.
I nostri ragazzi – il nostro futuro – non sono hard disk fatti per essere riempiti di informazioni.
Trackback dal tuo sito.