Mani pulite: una riflessione intima 30 anni dopo
In occasione del convegno organizzato dall’ANM di Milano per riflettere sui 30 anni di Mani Pulite, un magistrato di mezza età ricorda la “sua” tangentopoli: allora era solo un adolescente e quella indagine, senza che se ne accorgesse, avrebbe profondamente cambiato le sue scelte ideali e professionali. Gli anniversari portano bilanci. Questo è il suo, personalissimo.
17 febbraio 2022. Sono passati 30 anni dall’inizio di Mani Pulite, un’esperienza giudiziaria che avrebbe per sempre cambiato le sorti del Paese e di molti di noi.
L’ANM di Milano ha organizzato per quel giorno un incontro per tentare di fare un bilancio di quell’esperienza, descrivendo lo stato dell’arte della lotta alla corruzione prima dell’inizio di quell’indagine e dando la parola ai testimoni di quella stagione.
Questa ricorrenza, però, è anche un’occasione per riflessioni assai più personali, sugli effetti di quell’inchiesta sulle vite di singole persone, ancorché non lambite, nemmeno indirettamente, da essa, e tra le tantissime, anche sulla mia. Una piccola e trascurabile storia personale, segnata da quel grande evento storico su cui sentiamo l’esigenza di riflettere come cittadini e come magistrati. 17 febbraio 1992.
Avevo da poco 16 anni. Adolescenza piena. Provavo a prendere confidenza con il mio corpo e la mia capacità dialettica. Leggevo, molto meno di quanto dessi a vedere. Avevo il desiderio di piacere e di essere accettato. Dal gruppo, dai miei pari, dalle ragazze, dagli adulti. Superato l’impatto con il ginnasio, al liceo avevo deciso che mi piacevano le materie letterarie e che non avrei mai capito niente di quelle scientifiche. Una sciocchezza, ma inossidabile come ogni certezza di quel periodo. Mi piacevano soprattutto la storia e la filosofia. Mi piaceva stare con gli amici, farmi crescere i capelli, mettere le Clarks, vezzo che non ho mai abbandonato, usare l’eskimo e la kefiah intorno al collo, ma soprattutto, mi piaceva fare politica studentesca. Avevamo una preside che veniva definita “di ferro”. Okkupammo (si scriveva così) il liceo. Non succedeva dal 1977. Non la prese bene.
Poi, i soliti cliché: tutti suonavano e uno solo sarebbe diventato famoso. Qualcuno esagerò con le droghe e “ci rimase sotto”. Qualcuno fece una certa carriera politica. Qualcuno decise che quella meravigliosa cosa che è la vita non fosse davvero tale e se la tolse. Così: lasciando a tutti gli altri la sensazione di essere diventati improvvisamente adulti. Da questa tempesta ormonale, da questo continuo capogiro, inizio a guardare il mondo.
Sono di sinistra. Ne sono convinto. I care: mi importa, di tutto. Altro che me ne frego. “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni.” Cristallino. E perché allora solo l’altro ieri, nel 1989, è crollato il comunismo? Perché i miei coetanei che vivono nei Balcani si sparano e muoiono nelle loro città? Non lo so. Non me lo spiego. Adesso che però c’è Maastricht e l’Europa è unita, posso comprare il biglietto Interrail e andare dove voglio. Dormire nei treni, viaggiare, parlare con tutti quei ragazzi, tutti europei, che hanno i miei stessi occhi e la stessa voglia di cambiare il mondo.
Insieme a tutto questo arriva Mani Pulite. Ciao. Mi cambia la vita. Perché le cose vanno male in Italia? Semplice: perché i politici sono corrotti. Chi è il male dell’Italia? I politici corrotti. Ma calma.
C’è Mani Pulite. C’è Samarcanda di Michele Santoro. C’è Gad Lerner e c’è Mentana. Ogni giorno ci raccontano gli arresti, i corrotti, c’è Un giorno in Pretura, ma soprattutto ci sono loro: il pool di Mani Pulite e Antonio Di Pietro, in prima linea. Strano. Tuttora ricordo con un certo disappunto Antonio Di Pietro.
Credo, tutto sommato, pur avendo ascoltato decine di volte il tormento dietro quel gesto, di non avergli mai perdonato di aver lasciato la toga. Forse preferivo Colombo, l’intellettuale con i ricci arruffati e Davigo. Il dottor Sottile. Deve essere un genio, pensavo.
C’era poi il procuratore capo: Francesco Saverio Borrelli. Sono diventato magistrato per colpa o a causa sua.
Ero andato a vedere uno spettacolo teatrale al Carcano. Ormai i miei capelli erano diventati “serpenti neri di medusa Marley”. Normalmente gli adulti mi guardavano con un certo sospetto e una punta di disapprovazione. Non a casa. Non a scuola. Professori troppo intelligenti per non capire le dinamiche adolescenziali. Genitori meravigliosi. Ma normalmente per la strada gli adulti si scostavano e se c’era un controllo di polizia, sicuro che a me avrebbero chiesto i documenti e dove avessi messo il fumo. Non l’avevo.
Vado al Carcano. Nel foyer c’era anche Francesco Saverio Borrelli. Devo essermi pietrificato, quasi imbambolato, a guardare quel gigante così minuto che avevo davanti agli occhi. Forse lo guardai con eccessiva insistenza. Si voltò e mi fece un leggerissimo segno col capo, con un sorriso aperto e luminoso. Non mi aveva pre-giudicato. La magistratura è un luogo aperto. Allora siamo davvero tutti uguali davanti alla legge. Ok, mi dissi. È fatta. Da grande farò il magistrato.
Il 23 maggio un boato così forte che si sente dentro. Forattini disegna per la Repubblica un coccodrillo a forma di Sicilia che, piangendo, mangia un falcone in toga. Ero in macchina con mio padre quando vedo quella prima pagina. Glielo dico. Mi iscrivo a giurisprudenza. Sì, anche filosofia sarebbe stata bella.
Ma avevo un obiettivo più grande, restituire giustizia ad un Paese che ne era tanto privo. Costruire un po’ di uguaglianza sostanziale, avrei scoperto poi. Prima era uguaglianza tout court. Tutelare i deboli, gli oppressi, gli emarginati. E poi? Che vuoi? Non vuoi essere anche tu come quel nugolo di magistrati che da soli stanno cambiando il Paese? Non lo vuoi cambiare anche tu il mondo? Dai, è fatta.
Ora cade la DC, cade il PSI e il Paese sarà migliore. E mo’? Chi è questo? Ma non era quello che da piccolo mi faceva vedere le ballerine di Drive In? E sì. Erano belle, sì. Ma può mai fare il presidente del Consiglio un imprenditore? No. Ovviamente no. Forse sì. Che cosa? Addirittura, hanno preparato un decreto che non consente l’applicazione della custodia in carcere per lo spregevole reato di corruzione? Biondi chi? E il pool? Chiedono un trasferimento in un altro ufficio? Niente. Manifestazione. Ovvio. La facciamo per ogni cosa. Vuoi non andare davanti al Palazzo di Giustizia di Milano? C’è Paolo Brosio? Corriamogli dietro e facciamo cordone. La giustizia è un prerequisito della democrazia e noi siamo nel giusto e facciamo giustizia.
Poi? Poi l’adolescenza è finita. Lo studio del diritto, dell’ordine logico e sistematico del diritto, ha acquietato ampiamente le mie ansie e i miei deliri. Ho passato tutta l’università lontano dall’attività politica o da qualunque cosa facessi pensando che fosse politica. Fondamentalmente studiavo diritto e, nel tempo libero, parlavo di diritto. Non pensavo che un magistrato si dovesse occupare di politica e io studiavo giurisprudenza esattamente per quel motivo. Certo, inizialmente mi piaceva di più il diritto penale perché reca in sé una discussione ininterrotta tra Stato e Libertà, mentre il diritto civile, come sovrastruttura dell’ordine capitalistico, mi interessava di meno e anzi, lo guardavo con sospetto. Erano rigurgiti adolescenziali forse.
In magistratura ho sempre svolto funzioni civili e ne sono contento, sia professionalmente che intellettualmente. Dopo 30 anni dall’inizio di Mani Pulite mi trovo in mano la toga e provo nei miei confronti un senso di pena, per avere capito poco o nulla di quanto la storia mi stesse plasmando e tuttora per non avere risposte davvero valide.
La distinzione tra buoni e cattivi, tipica dell’adolescenza, è sparita. Ero convinto che i magistrati fossero buoni e i politici cattivi. Entrambi sono come il Paese è ed è sempre stato.
Ho pensato che l’intervento giudiziario potesse costituire una risposta al nodo della dilagante corruzione nel Paese. No. Non poteva essere. Ma i colleghi del pool l’avevano capito tanti anni fa, mentre io mi domandavo per quale motivo bisognasse arrivare a una pacificazione.
Ho contribuito con i miei atteggiamenti, comuni a una massa indistinta di persone, ad avallare il populismo giudiziario: l’idea salvifica dell’esistenza di alcuni eroi che da soli avrebbero potuto cambiare le sorti del Paese. Errore gravissimo. “Beato il Popolo che non ha bisogno di eroi” e checché ne abbia detto Italo Ghitti, i processi servono per giudicare singoli fatti, non fenomeni e sistemi nel loro complesso. Per quella roba lì serve la Politica, non la magistratura.
È stato brutto vivere in un Paese in cui, azzerata la precedente classe politica, non si sia stati in grado di restituirne una nuova che rappresentasse le istituzioni democratiche e che perseguisse obiettivi di grande respiro. Abbiamo dovuto ricorrere più volte a governi tecnici. Per almeno 15 anni la vita politica è stata condizionata dai problemi e dai modi di un solo uomo, il personalismo esasperato si è impadronito dei partiti, tutti i partiti hanno vita breve e si giocano su singole personalità.
L’incapacità della classe politica è stata anche incapacità della magistratura. Fin tanto che bisognava unirsi per contrastare gli attacchi che giornalmente ne fiaccavano il corpo e il lavoro, si è stati uniti. Però questi continui attacchi hanno screditato la magistratura, l’istituzione della magistratura, agli occhi del Paese. Le hanno tolto la fiducia, unico sostantivo che legittima la giurisdizione.
Intanto, di cosa accadesse negli interna corporis della magistratura poco si parlava, almeno apertamente. Il sistema correntizio dilagante è stato tutto sommato accettato dalla magistratura, così come, tutto sommato, per tanti anni il Paese aveva accettato un sistema basato sulla corruzione.
Ci siamo risvegliati di colpo da corpo morale, un corpo che era un punto di riferimento tale che i giovani volevano fare i magistrati e le iscrizioni a giurisprudenza avevano avuto un’incredibile impennata, a corpo flaccido, ciascuno preso dalle proprie, davvero misere, ambizioni personali senza curarsi di salvaguardare l’istituzione nel suo complesso. Più preoccupati a controllare che il lavoro sia “esigibile” che a cercare di capire come farlo in modo esatto, al meglio, mantenendosi autonomi e indipendenti da ogni altro potere dello Stato e dallo stesso ordine giudiziario. Certo non tutti.
Molti hanno fatto il loro lavoro, senza essere eroi. Quanti però si sono presi la briga di denunciare ciò che non andava? E di farlo nel luogo in cui questo doveva avvenire? E cioè nell’ambito dell’ANM, nella cosiddetta casa comune della magistratura, dove i problemi si dovevano e si devono porre, con coraggio e senza infingimenti.
Io no, non l’ho fatto. Insomma, dopo 30 anni siamo finiti dalle stelle alle stalle. E in un Paese democratico entrambi questi estremi sono dannosi.
Ma quel ragazzo pieno di ideali e di entusiasmo che ero ancora alberga in me e ora che sono molto più grande e mi pare di vedere più chiaramente il momento in cui viviamo, pur con tutte le contraddizioni e le inadeguatezze che l’età adulta ti mette davanti agli occhi, cerco di lavorare per restituire, insieme a tanti altri colleghi, la fiducia nella magistratura, non il consenso popolare: un’immagine sana della magistratura per un Paese che pretendo altrettanto sano e che non dovrebbe avere bisogno di eroi.
* Giudice del Tribunale di Milano
Fonte: Questione Giustizia
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