Suoni, igiene e odori. Il virus ha modificato molti dei nostri costumi quotidiani minimi
De minimis non curat praetor. Ma il sociologo sì.
Eccomi dunque a segnalarvi la microfisica più oscura del nostro cambiamento antropologico nell’era del Covid. Ovvero alcuni minuscoli e però significativi effetti prodotti da due anni di pandemia. Ma preparatevi bene. Non di alate cose psicanalitiche si parlerà. Bensì di cose che hanno perfino a che fare, come diceva il professor Vito Muciaccia, gigante del greco e del latino, con quell’imbarazzante lato della nostra vita fatto di odori e di rumori.
I rumori, anzitutto. Sono più forti, più goduti, più inutili e insieme liberatori di prima. Se l’isolamento non ti fa parlare con nessuno, o se parli con qualcuno solo attraverso teams, skype o iphone, perché i fiati non si possono mescolare, poi la voglia di usare la voce in un meraviglioso corpo a corpo con chiunque ti passi a tiro cresce in forme dirompenti.
Fateci attenzione. Locali un dì sobri e poco rumorosi ora rimbombano letteralmente. E mica perché pieni.
Si urla, si sghignazza senza senso. Due persone che una volta si sarebbero scambiate racconti e opinioni con qualche intimità ora li gridano. In gruppo ci si corteggia alzando i toni, cercando disperatamente la battuta strepitosa che renda fascinosi e vincenti o, simmetricamente, starnazzando compiacenti per le non strepitose battute in arrivo permanente dalla tavolata. È la saga dei decibel, in un popolo già rumoroso per indole, che urla al telefono come nella celebre gag di Walter Chiari sulle chiamate per l’America.
Ma il guaio è che poi c’è l’umana filiera, quella che va dai ristoranti o dalle tavolate ai luoghi in cui il cibo finisce.
È cambiata l’estetica di quei luoghi. Il contagio fa paura. Hai un bel dire che dopo la terza vaccinazione il virus è fiacco. C’è sempre una paura fottuta a schiacciare col polpastrello il pulsante dell’ascensore. Solo che dell’ascensore hai bisogno, sicché trovi lo stesso come farlo salire e scendere: un gomito, il dorso della mano, una nocca.
Ma se hai paura del bottone dell’ascensore, figurarsi del pulsante dello scarico in bagno. Che dita, che mani l’avranno schiacciato decine e decine di volte prima che tu arrivassi? E con che potenzialità di contagio? Qui però non hai necessità di schiacciare comunque. Puoi andartene senza fatica. In ogni water che si rispetti c’è dunque carta igienica galleggiante. Mica solo in autogrill. Ma anche nei bagni delle università, anche nella business class della Freccia rossa, anche nei ristoranti che se la tirano.
Per non parlare degli assi di legno. E chi li tocca per rimediare ai frutti della propria o altrui imprecisione o distrazione? Questa forma elementare di igiene pubblica non conta più. Perché il virus è peggio. Così cambia il micropaesaggio della vita quotidiana in un suo luogo simbolico (e obbligato).
Vita quotidiana che, sempre a causa del cibo, presenta poi un ulteriore problema, fatto proprio di odori.
Posso qui testimoniare che mai in vita mia mi sono imbattuto in così ubique emissioni sulfuree umane come in questo periodo. In coda alla posta, alla riunione dei ricercatori universitari, in treno (area business silenzio), all’ostello, alla Casa della cultura, in taxi, praticamente ovunque. Con sconcerto, rabbia mia. Ma con naturalezza estrema da parte degli autori/autrici.
Zitti, serafici, sfacciatamente impuniti (anche quando si è in due: o io o lui). Le persone si sono abituate a stare sole, o a vivere la più permissiva socialità casalinga, perdendo con ogni evidenza le forme più elementari di autocontrollo.
Scrutiamo i macro-processi indotti dalla pandemia ma intanto qualcosa è cambiato nei nostri costumi quotidiani minimi.
Ah, se ci fosse il professor Muciaccia a spiegarci, tra un carme di Catullo e una lirica di Saffo, che ognuno di noi è purtroppo riconducibile a un’esperienza di odori, forse almeno sentiremmo l’imbarazzo…
* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 07/02/2022
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