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Femminicidi, la piaga e la cerbottana

Gian Carlo Caselli il . Criminalità, Cultura, Diritti, Giustizia, Società

Che fare. Su 295 persone uccise, 118 sono donne. Bene il “Codice rosso” ma vanno rese obbligatorie le procedure di allontanamento dei violenti e rafforzati i risarcimenti per le vittime. Senza risorse è una lotta impari

L’inaugurazione dell’anno giudiziario ha evidenziato che su 295 omicidi commessi in Italia 118 vittime sono donne (102 assassinate in ambito familiare, 70 ad opera del partner). Un problema  angosciante.

Eppure, il delitto di femminicidio – a stretto rigore formale di lettera della legge – nel nostro ordinamento non esiste! L’articolo 575 del codice penale punisce, per omicidio doloso, chiunque cagiona volontariamente la morte di un uomo; il successivo articolo 589 punisce, per omicidio colposo, chi provoca (per imprudenza o condotte assimilate) la morte di una persona.

La sequenza e la diversità dei termini non sembrerebbero lasciar dubbi: eppure può qualcuno seriamente pensare che non costituisca reato l’omicidio volontario di una donna? Consegniamo il paradosso a chi predica che “la legge si applica, non si interpreta” e sostiene che il giudice deve essere soltanto “bocca della legge”. E ritorniamo alla realtà concreta, che significa acquisire sempre più consapevolezza in ordine  a gravità, dimensioni e  conseguenze nefaste della violenza contro le donne.

Il Consiglio d’Europa stima che le donne vittime, almeno una volta nella loro vita, di violenze fisiche o sessuali ad opera di un uomo sono tra il 20 e il 25%. La forma di violenza più diffusa è quella domestica: in Europa l’hanno subita tra il 12 e il 15% delle donne dopo 16 anni di età.

Per la collettività il prezzo sociale della violenza subita dalle donne ha un costo sociale elevato (cure mediche; spese di polizia e giustizia; costi per alloggi e sostegno). Con una ricaduta sul bilancio di ciascuno stato e sulla sua competitività economica di 34 miliardi di euro annui (ancora  il Consiglio d’Europa).

È quindi evidente che la spesa sociale per prevenire e contrastare la violenza deve essere considerata un investimento, non un onere passivo. Con un corollario e un postulato. Il corollario è che avere per le vittime rispetto, solidarietà e sostegno non è solo un dovere; è anche un vantaggio sociale ed economico per tutti. Il postulato è che inefficacia e disfunzioni del sistema nutrono l’illegalità e finiscono per creare di fatto una specie di “criminal welfare”: nel senso che l’autore del crimine spesso viene  “condonato” e le conseguenze del delitto sono pagate dalla collettività con aggravio della spesa pubblica.

Disfunzioni e inefficienze sono purtroppo tante. Nei processi per violenza di genere la donna rischia di più anche quando ha ragione. Spesso è l’unico testimone e il difensore dell’imputato può puntare a screditarla per ottenere l’assoluzione. Se questa arriva, la donna subisce una “vittimazione” secondaria: esce dal processo con l’umiliazione di non essere stata neppure creduta, oltre che non tutelata.

E poi il nostro è un sistema garantista incentrato sull’imputato mentre la vittima è trascurata. Il che obiettivamente può facilitare la sottovalutazione degli indici rivelatori del reato e del pericolo di reiterazione di atti violenti. Tanto più che nel nostro ordinamento l’imputato ha facoltà di non rispondere, ma se risponde può mentire impunemente (in USA invece commette il reato di oltraggio alla corte).

Quanto al piano investigativo-giudiziario la cosa più importante è la sensibilizzazione/specializzazione degli operatori. Utilissime le sezioni specializzate in fasce deboli e reati di genere, ma sono possibili solo nelle procure medio grandi. Sarebbe opportuno pensare a un pool con competenza distrettuale (come per mafia e terrorismo). Merita di essere studiata la Ley organica 1/2004 con cui la Spagna ha istituito tribunali specializzati e previsto per la vittima non abbiente il diritto ad un sussidio di disoccupazione oltre che alla difesa gratuita.

La specializzazione è di certo decisiva, ma da sola non basta. Le occorrono gambe su cui camminare, cioè leggi mirate sulla specificità del fenomeno. Falcone, il massimo dei massimi tra gli specialisti di mafia, diceva che senza il 416 bis (reato associativo) pretendere di sconfiggere la mafia era come illudersi di poter fermare un carrarmato con una cerbottana.

Per i reati di genere un salto di qualità tipo 416 bis si è avuto con il “Codice rosso” (legge 69/2019). Oltre a misure preventive – per evitare di intervenire solo dopo…le pompe funebri – la legge si propone di assicurare prontezza di risposta. La Pg deve riferire immediatamente al Pm anche oralmente; il Pm entro tre giorni dall’iscrizione deve assumere informazioni dalla persona offesa o dal denunziante; la Pg deve procedere senza ritardo alle indagini delegate dal Pm. In sostanza si è introdotta una sorta di “triage” come al pronto soccorso, dando la  precedenza non a chi arriva per primo ma a chi ha più bisogno.

Altre cose si dovrebbero ancora fare: in particolare rendere obbligatorie e non discrezionali le procedure di allontanamento dei violenti; assicurare tempestività ed effettività dei meccanismi riparatori e risarcitori (anche mediante fondi di garanzia); subordinare la concessione di benefici all’imputato al superamento della messa alla prova.

Più in generale, potrebbero essere molto utili un aumento mirato del bilancio giustizia (con i fondi del  PNRR) e la costituzione  di un Osservatorio che monitori con costante aggiornamento cause e modalità della violenza promuovendo i cambiamenti necessari.

Ad esempio per il problema sempre più urgente delle  violenze sessuali commesse da gruppi di maschi contro le donne, frutto anche di una specie perversa di DAD (didattica a distanza), svolta dai siti che propagandano il gangbang (pratiche rappresentate come nulla di cui spaventarsi: sono solo orge…). Siti che istigano alla violenza sulle donne e alla commissione di stupri di massa, manipolando centinaia di migliaia di ragazzi e lucrando sulla instillazione dell’odio. Al punto che alla polizia postale si dovrebbero dare direttive cogenti per oscurare queste “DAD” criminali, studiando nel contempo la praticabilità di azioni civili per i danni causati.

Merita infine di essere conosciuta la “Palestra dei diritti” di Torino, avviata dal Comune (giunta Fassino) su input di un magistrato, Fulvio Rossi, all’epoca in servizio presso la Procura generale, che da parecchi anni funziona nei locali del Palagiustizia e ha già coinvolto oltre tremila donne.

Si simulano aggressioni emerse dai processi penali, studiando con atleti delle forze dell’ordine le risposte più adeguate. Si distribuiscono gratuitamente alle allieve testi su legittima difesa, stalking, mobbing e violenza sessuale. La formula “Non più indifesa ma in difesa” esprime icasticamente gli scopi dell’iniziativa. Una sua diffusione, che coinvolga anche associazioni no profit, ordine degli avvocati e  magistrati,  potrebbe dare alla cittadinanza più consapevolezza dei propri diritti.

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 26/01/2022

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