L’evento del millennio? L’invenzione del vaccino. Sì, ma per battere la malaria
La coda in aeroporto è lunga e fitta, alla faccia del divieto di assembramenti.
Claudio (che non è un nome di fantasia) mi punta d’improvviso uno sguardo interrogativo in faccia e mi chiede: ma tu lo sai qual è il più grande evento degli anni Duemila? Penso alle Torri gemelle, all’Afghanistan, ma lui non mi dà il tempo di completare la rassegna mentale. “Te lo dico io, è la scoperta del vaccino…”, e qui immagino “anticovid”. Sbagliato. “Del vaccino contro la malaria”.
Non so se sia una boutade. Se intenda beffarsi del dibattito che imperversa da quasi due anni sulle prime pagine dei giornali. Certamente sembra pensarlo il passeggero in fila accanto a noi. Ma perché, gli chiedo, prima non c’era il vaccino? No, risponde. È una scoperta recentissima.
Prima ci si difendeva con una profilassi detta “primaria”, con i suoi semplici imperativi. Coprirsi negli orari critici delle zanzare, usare zanzariere imbevute di insetticidi. Solo che dove infuria la malattia le zanzariere non si trovano. Hai presenti i posti? L’Africa sub-sahariana, alcuni paesi dell’America latina, alcuni paesi dell’Asia. Il 40 per cento della popolazione mondiale vive in zone dove la malaria è endemica. E devi anche sapere che la malaria o ammazza o ammala per sempre, non si guarisce.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità muoiono 260mila bambini africani all’anno, gli infettati sono 228 milioni. I morti annui 430mila, in gran parte bimbi sotto i 5 anni. Non parliamo delle cure con i farmaci. Il chinino rende sordi, il malarone attacca il fegato, ti rovina.
Claudio maneggia a memoria le cifre perché questa storia è anche sua. L’ha vista in faccia le tante volte che è volato da volontario in Costa d’Avorio, tra fine Novecento e inizi del nuovo millennio. Andava in una missione del don Orione, dove gli effetti della malattia erano visibili e continui. Ora li ricorda con raccapriccio.
Missionari diventati ciechi, e la consapevolezza che o muori o fai una vita di m…, la febbre che ti torna ogni due mesi, la difficoltà a deambulare e i problemi alla vista. Era in un villaggio, si chiamava Khorogho, incerto e smarrito, ogni sei mesi un colpo di Stato e un carosello di bande armate. Molte suore siciliane, altre calabresi. E sai, aggiunge, che succede a chi rimane vivo? Che hai bisogno di cure continue, costose, che quei Paesi non si possono permettere; oppure cadi in depressione, e quei Paesi perdono parte della loro forza lavoro. Insomma, è una malattia che nasce dalla povertà e produce ulteriore povertà.
È così endemica la malaria in quei Paesi, racconta, che quando ti ammali ti fanno una grande festa, come fosse un rito di passaggio. Non per niente Moravia, quando narrò i suoi viaggi in Africa, polemizzò con l’espressione “mal d’Africa”, intesa come nostalgia del continente. Il mal d’Africa, spiegò duro, è la malaria.
Eppure tutto questo, chiosa Claudio, non è stato sufficiente per cercare un vaccino. L’Oms ha fatto 30 anni di ricerca infruttuosa. Finché si è formata una rete di grandi finanziatori, con dentro l’Unicef e anche la fondazione Bill Gates, che ci ha messo 20 milioni di dollari. E allora finalmente è venuto fuori il vaccino, sperimentato nel 2019. Hanno già vaccinato 800mila persone e la mortalità si è ridotta del 30 per cento.
“Sono arrivati tardi”, commenta il vicino di coda che ha sentito tutto. Certo, replica Claudio, perché morivano in Africa e non erano un mercato ricco. Non erano ricchi né gli esseri umani né gli Stati. Tanto che questo vaccino non è stato pensato per far profitti.
Che strano. Bastano le memorie personali di un amico per scuoterti, per riportarti con i piedi per terra. Per ribadirti che le diseguaglianze (che sono le vere “distanze sociali”) esistono.
Chissà, penso ancora, che fine farebbero i no vax in Africa. Detto senza alterigia, ma giusto per curiosità.
* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 29/11/2021
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