I giovani e il giornalismo: una giungla in cui farsi strada
Non so cosa da piccola mi spingesse a rispondere alla classica domanda “cosa vuoi fare da grande” con “la giornalista”, piuttosto che la ballerina, l’astronauta o la veterinaria, ma ho sempre guardato a questo lavoro con ammirazione e curiosità, associando a chi lo praticava una prodezza eroica. Poi negli anni ho capito che, nella mia rappresentazione luccicante, avrei dovuto fare i conti anche con molte contraddizioni.
Se mi viene chiesta una riflessione da una prospettiva di “giovane” che si approccia a questo mondo, la prima e più evidente incoerenza che si incontra è la fatidica nozione del fare gavetta: l’idea che i giovani acconsentano a ogni tipologia di ruolo e mansione, lavorando giorno e notte e accettando qualunque compenso – quando c’è – perché l’importante è l’esperienza. Tutto vero: nella mia esperienza la disponibilità e l’impegno hanno sempre ripagato nella vita. Tuttavia, negli anni mi è venuto il dubbio che questo mantra fosse un modo simpatico per deresponsabilizzare il sistema rispetto alle poche tutele che offre. E forse, anche per depoliticizzare un poco lo stato delle cose: non c’è niente da fare, la situazione è sempre stata così e non cambierà, se vuoi starci dentro deve andarti bene.
Il problema è che questo approccio innesca una serie di dinamiche, a volte potenzialmente benefiche, a volte distorte. La prima è l’idea di una competitività originaria, che porta a pensare che per essere “qualcuno” – e guadagnare come tale – c’è bisogno di sgomitare. Sia chiaro, l’ambizione è da sempre un motore sociale positivo, ma non quando la condizione di partenza è iniqua. Il fatto che tutti facciano la comunicazione social per qualsiasi causa o possano essere collaboratori esterni delle testate favorisce in primo luogo una condizione di competitività dove un giovane, per sopravvivere, o combina più lavori per sbarcare il lunario (togliendo magari preziose energie a quello giornalistico) o cerca di scrivere il più possibile (abbassando magari il livello di selezione di cosa raccontare).
In secondo luogo, legittima l’idea per cui tutti possano scrivere, fare informazione, essere giornalisti. La bellezza di questa professione è che dà forma e sostanza ad alcune delle libertà dell’uomo più importanti – quelle di pensiero, d’espressione, d’informazione – ed è positivo che in tanti vogliano applicarcisi. Tuttavia, se tutti possono darvi corpo senza alcuna formazione, come si fa a verificare che ci sia attendibilità, qualità e coerenza con la deontologia professionale? Che sia chiaro, non serve essere pubblicisti o professionisti per essere dei bravi giornalisti, ma è anche vero che se tutti possono fare comunicazione, la svalutazione della professione è un rischio reale. Tenendo conto, infine, che molte redazioni preferiscono far lavorare i più “economici” collaboratori esterni, disincentivando – volenti o nolenti – il processo di acquisizione di questi titoli.
Il mondo cambia in fretta e per raccontarlo c’è infatti bisogno di studio, formazione, approfondimento. La responsabilità del giornalismo, infatti, sta anche nel fatto che si parla alle persone, contribuendo a formarne la coscienza e la consapevolezza: indirizzandone anche l’attenzione e le preferenze, ovviamente. E se è vero quanto diceva Moretti in “Palombella Rossa”, per cui “le parole sono importanti! […] Chi parla male, pensa male”, a volte la scelta tra due termini (solo apparentemente sinonimi) può fare la differenza nella rappresentazione della realtà, con ricadute sulla percezione – e il voto – dei cittadini. Bisogna dedicare energie e tempo ad acquisire un linguaggio corretto, per non correre il rischio di reiterare, anche inconsapevolmente, immagini imprecise o nocive. Tutto questo è un impegno intellettuale oneroso, se costretti a rincorrere un salario minimo.
Se questa è la giungla di fronte alla quale si ritrovano i giovani aspiranti giornalisti, ancor più difficile rischia di essere una carriera nel mondo del giornalismo d’inchiesta, più alta espressione di questa professione. Il giornalismo d’inchiesta è un animale anomalo, che richiede tempi lenti e cura per fatti rapidi e sfuggenti: per questo, al fine di ottenere un giornalismo di qualità e rompere il circolo vizioso di cui si parlava prima, è essenziale il sostegno delle redazioni nel supportare i giornalisti, soprattutto se giovani e senza una sicurezza economica alle spalle.
Purtroppo, questa assunzione di responsabilità (e di coraggio) da parte dei giornali è sempre più rara, a causa dell’annosa questione della sostenibilità dell’informazione. A causa dell’imporsi dell’online, che ha reso il mondo della comunicazione più fluido (ma anche più povero); del calo della readership ormai strutturale – ma di cui ancora non si comprende con esattezza la radice; del conflittuale rapporto tra inserzioni pubblicitarie e l’indipendenza di un giornale, che spesso obbliga le testate non nelle condizioni di rifiutare l’offerta economica ad acconsentire alle richieste di chi paga; di un’opinione pubblica sempre più critica e sfiduciata, che sull’onda del populismo disconosce il valore del giornalismo; delle cosiddette “querele temerarie”, che sempre più esplicitamente sono strumento di attacco nei confronti di giornalisti scomodi, è sempre più difficile per le redazioni sostenere un percorso di inchiesta con tutti i costi e i rischi che comporta.
Eppure, a discapito delle retoriche svalutanti e infantilizzanti dei giovani come fannulloni o bisognosi di gavetta a prescindere, ci sono tante forze e menti brillanti desiderose di mettersi a servizio, che spesso hanno tutte le capacità per farlo. Ne è una dimostrazione il Premio di giornalismo investigativo “Roberto Morrione”. Questa iniziativa da dieci anni porta avanti la memoria di Morrione, tenendone vivo il messaggio. Ovvero, un’idea di giornalismo fatto con rigore, verifica delle fonti, puntualità nel raccontare la realtà, che volga lo sguardo proprio nei coni d’ombra dell’informazione: un modello che sa ancora ispirare oggi. Il Premio ogni anno, a fronte della partecipazione al bando di decine e decine di giovani, seleziona 4/5 progetti di inchiesta per poi finanziarne la realizzazione e favorirne la promozione. Nello scenario italiano, rappresenta dunque la cartina al tornasole del fatto che i giovani desiderosi e capaci di impegnarsi ci sono: hanno solo bisogno di essere sostenuti. Oggi c’è bisogno di esperienze come queste: trampolini di lancio che non assicurano un lavoro, certo, ma che aprono tante strade nel mondo selvaggio dei media.
Pertanto, a conclusione di tutte queste riflessioni, penso che l’immagine di eroica prodezza che avevo a 10 anni del giornalismo non fosse del tutto naive: per decidere di percorrere questa strada, nonostante tali contraddizioni, forse un po’ prodi – o un po’ folli – bisogna esserlo. Ed è anche questo, forse, il bello di questa incredibile professione.
Fonte: Premio Roberto Morrione
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