Il sussidiario. Nostalgia dell’istruzione che fu. Se i grandi, oggi, fossero come i bimbi di ieri
Aveva una copertina color verde tenero, su cui si stagliava un’immagine maestosa del Cervino. E “Cervino” era il titolo del libro.
Uno stupendo, irripetuto sussidiario che faceva da “guida alla preparazione agli esami di quinta elementare”. Che allora erano chiamati “esami di Stato”: obbligatori per ottenere il primo titolo di studio a cui si potesse aspirare.
C’era tutto, in quel libro. Grammatica, sintassi, storia, geografia, scienze, aritmetica, e credo altro ancora; sicuramente molte belle figure, anche fotografie. Era la summa del sapere. Un lasciapassare verso il grande traguardo della scuola media, all’epoca non ancora unificata. La cima della montagna brillava lì, sulla copertina, quasi a suggerire la fatica come strada più sicura per riuscire nella vita.
Era un’altra Italia. Che mi è venuta in mente in questi giorni in cui visi colti e appassionati si affrettano alla consegna dei capitoli delle tesi di laurea in vista delle sessioni invernali. O in cui riprendono i dibattiti in presenza a lungo sospesi. Mi chiedo sempre più spesso infatti che fine abbia fatto quel prodigioso strumento di sapere.
E andando a curiosare in rete mi rendo conto di non essere davvero l’unico a provarne nostalgia. Non per l’Italia del boom economico del dopoguerra, con le sue ingenuità e i suoi slanci. Ma per l’Italia che, studiando e padroneggiando quanto c’era scritto su quel sussidiario, sapeva che Varsavia era la capitale della Polonia e che Cristoforo Colombo aveva scoperto l’America nel 1492. Che conosceva il valore di vocaboli e sintassi grazie a insegnanti poveri ma prestigiosi che quasi anticipavano le “Lezioni americane” di Calvino sull’esattezza delle parole.
Un’Italia che dunque non scriveva “improntato su” confondendo “improntare” con “imperniare”. Che non scriveva che quella decisione aveva “scaturito degli effetti”, perché era ben consapevole che “scaturire” è un verbo intransitivo. Che non diceva che il tal fenomeno “si è insidiato in Lombardia”, avendo chiaro che “insediare” è diverso da “insidiare”. E che meno che mai avrebbe poi detto, come dicono ormai con strabiliante naturalezza anche i professori universitari, “finalizzare” al posto di “concludere”, perché sapeva che “finalizzare” significa “dare un fine”, non “metter fine”.
Sarà stato un sussidiario semplice con le sue molte figure, essendo stato pensato per bambini condannati a vederne da lì in avanti sempre meno sui propri libri .Ma era certo un deposito di conoscenze più complesso dell’informazione di oggi, in cui le figure in forma di foto o riprese televisive sostituiscono o strapazzano le parole.
Ho cercato invano il “Cervino” nei miei scaffali più improbabili e confusi. Prima o poi lo troverò. Intanto sono costretto a pensare che sarebbe davvero bello se i laureati di oggi sapessero quel che sapevano i bambini delle elementari di quell’Italia contadina ancora in procinto di conoscere il consumismo. Le capitali hanno talora cambiato nome con i processi di decolonizzazione. Ma quelli di allora erano in genere ben conosciuti. Punti fermi nella fantasia di chi non viaggiava. Oggi incognite assolute negli orizzonti di chi ha fatto del viaggio la propria religione.
Sarà pur stramba questa fantasia del “Cervino”. Ma davvero gli investimenti in programmi, insegnanti, concorsi, strutture, insomma le “storie italiane” della scuola, hanno prodotto, come risultato, un arretramento di massa rispetto a un sussidiario delle elementari?
Dice che conta la modernità del sapere. Ma dubito assai che se piombassimo in una scuola e chiedessimo – quasi tentando un immaginario scambio cronologico dei saperi -, chi siano stati Martin Luther King o Pablo Neruda troveremmo molte risposte.
Forse una piccola, grande riflessione sull’argomento non guasterebbe. Magari partendo da un bel festival dei sussidiari. In effetti mi sembra che manchi.
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 08/11/2021
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Memoria a lampi. Quando il “professionista del bene” è solo un bimbo timido e arruffato
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