Agro Pontino, lavoratrici come prede per il padrone
Il sociologo Marco Omizzolo fotografa un fenomeno sistemico dove sfruttamento e violenza sessuale investono la vita delle lavoratrici. Se sono straniere, se sono madri, se parlano poco l’italiano diventano le vittime perfette
La ricerca è stata pubblicata nei giorni scorsi ed è stato uno choc. Non perché non si sapesse che nelle campagne dell’Agro Pontino spesso lo sfruttamento lavorativo delle braccianti va di pari passo con quello sessuale, ma a lasciare senza fiato sono state le testimonianze raccolte nel corso di un anno e mezzo di attività sul campo, che raccontano gli stupri e le umiliazioni subite dalle nuove schiave. “Io sono una pecora, loro i leoni” dice una di loro ed è la metafora che meglio rispecchia la realtà che ci viene descritta da Marco Omizzolo.
Omizzolo è un sociologo dell’Eurispes, docente di sociopolitologia delle migrazioni presso l’Università la Sapienza di Roma, presidente e animatore dell’associazione di promozione sociale Tempi Moderni ma è soprattutto, e ormai da vent’anni, un uomo impegnato per difendere i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, spesso indiani, che popolano le campagne della provincia di Latina. Li conosce, dà loro voce e, fianco a fianco con il sindacato e con la Flai Cgil in particolare, lotta contro il loro sfruttamento. Nello studio commissionato da We World e dedicato proprio alle donne, l’impegno politico è quello di cambiare, di porre fine a un fenomeno sistemico e a una dinamica più ampia che investe la donna lavoratrice, a volte, appena esce di casa.
“La donna è spesso l’ultima a essere chiamata dal caporale, maschio, e viene chiamata quando non c’è un uomo disponibile a ricoprire quel posto. È considerata una riserva e come tale viene trattata e ricattata sia dal punto di vista lavorativo che sessuale. Da un lato le vengono negati i diritti fondamentali del lavoro, dall’altro il capanno si trasforma in un luogo di violenza. Sporche sono le mani del padrone che violenta ma sporche sono anche le sue orecchie: il datore di lavoro, in genere italiano, è stato capace di vietare alle lavoratrici di parlare tra loro nella lingua di origine, pena una multa che può arrivare a 25 euro, così le ascolta e le controlla, le studia per capire, ad esempio, se hanno intenzione di rivolgersi al sindacato o di denunciarlo. Questo controllo si estende anche alla vita privata della lavoratrice, persino attraverso i social”.
Per esempio?
Per esempio è accaduto che una lavoratrice moldava si sia presa una giornata di ferie, dopo un anno e mezzo di lavoro ininterrotto che aveva determinato conseguenze molto gravi sul suo stato psico-fisico. La donna aveva in programma una visita medica ma prima ha osato fermarsi sul lungomare di Sabaudia, scattarsi un selfie e postarlo sui social. La reazione del datore di lavoro è stata immediata e l’ha richiamata subito: se non fosse tornata l’avrebbe cacciata. Dunque, come dicevo, il controllo sulla vita privata è totale ed è anche sofisticato e innovativo.
Quanto è diffuso il fenomeno dello sfruttamento sessuale delle braccianti?
Purtroppo molto anche se non riguarda tutto il sistema agricolo della provincia di Latina, ma abbiamo cognizione di alcune specifiche aziende e. in alcuni casi, c’è già non solo una ricerca ma anche una traccia legale e formale perché le donne che sono state sfruttate hanno già presentato denuncia alle forze dell’ordine, definendo i tratti delle violenze che hanno visto o vissuto.
Denunciare una violenza è sempre difficile, denunciarla in condizioni di sfruttamento quando il violentatore è il padrone o il caporale lo è ancora di più. Come sostenete queste donne?
Senza alcun dubbio è un percorso difficilissimo, tanto che ritengo che oggi possiamo affrontarlo grazie ai quindici anni di lavoro sul campo che abbiamo alle spalle e dopo un lungo periodo di impegno coordinato con la Flai Cgil, che ci ha permesso di acquisire credibilità presso i lavoratori e le lavoratrici. È grazie a questo che le donne hanno deciso di iniziare a dialogare con noi. Anche in passato si erano confidate senza denunciare, ma in quest’ultimo anno e mezzo le cose sono parzialmente cambiate. Già nel 2016, negli scioperi organizzati a Latina, alcune donne partecipavano alle manifestazioni; nel corso del tempo questa presenza è cresciuta. Per esempio, all’apertura dello sportello legale “Dignità Joban Singh” abbiamo registrato un dato rivoluzionario: le prime cinque persone a presentarsi da noi sono state donne. Inizialmente ci hanno raccontato lo sfruttamento tipico, il lavoro senza stipendio per mesi, l’assenza di tutele, ma le risposte date e la nostra credibilità le ha portate a fidarsi e a raccontare anche altro.
Alle donne il padrone vieta di parlare nella loro lingua di origine, il padrone invece quale lingua parla?
Parla il linguaggio sessista e violento dei padroni, un linguaggio crudo che spesso viene trascurato da chi si occupa di questo fenomeno. Si va dall’insulto razzista come “stronza di un’indiana” alle urla pubbliche passando per le umiliazioni verbali accompagnate dalla minaccia di licenziamento. Per essere insultate basta ribellarsi alle ingerenze, alle mani che ti toccano mentre stai lavando o lavorando i prodotti raccolti.
Le scene che descriviamo fotografano un padrone che tocca, vede e sente tutto.
Esattamente. La lavoratrice è violata dalle mani, dagli occhi e persino dalle orecchie del padrone che sceglie qual è la donna da violentare e ricattare. La preda perfetta: non semplicemente la donna migrante, ad esempio, ma quella che parla poco l’italiano ed è anche madre perché in questo caso lo stigma che la colpirebbe sarebbe doppio. Se quella donna si rifiutasse di andare con il padrone la conseguenza sarebbe che il caporale, che in genere è della sua stessa nazionalità, metterebbe in giro la voce che è una prostituta, la lavoratrice madre verrebbe punita con una maldicenza che poi ricadrebbe con un peso violento ed estremo sui suoi figli e sull’intera famiglia. A volte questa voce non resterebbe solo nella comunità ma arriverebbe persino nel Punjab, nelle città di origine. La violenza subita, oltre a essere fisica e verbale, è così anche psicologica e sociale. Ho raccolto personalmente storie di donne che erano sull’orlo del suicidio e che non lo hanno commesso solo perché c’erano bambini di mezzo e non volevano abbandonarli. Questo non è “solo” sfruttamento del lavoro e non è “solo” sfruttamento sessuale, va molto oltre: è sfruttamento della vita.
Cosa c’è alla radice di questo sistema?
Non c’è semplice brutalità ma un pensiero brutale, articolato, ragionato che poi diventa azione brutale. Ad alcune donne che vengono adocchiate da padroni e caporali viene chiesto di fare straordinari ma lo scopo reale è quello di mandare via i testimoni e lasciarle sole. Quando ti dicono “siamo pecore e loro sono i leoni” raccontano questo: l’isolamento forzato dal gruppo, la complicità del buio, l’imposizione del ricatto che le costringe a sottostare alla violenza sessuale di uomini che a volte hanno anche 75 anni. E poi, ancora dopo, l’altro ricatto, quello dei caporali che magari le hanno fotografate e filmate e che minacciano di diffondere quelle foto e quei filmati perché non ci sia denuncia.
Cosa accade quando quel percorso difficilissimo di denuncia, invece, si avvia?
C’è la presa in carico, anzi la presa in carico c’è fin da prima della denuncia e la denuncia ne è il risultato. Perché le donne vengono accolte da professionisti che le ascoltano e le aiutano a intraprendere questa strada. Successivamente c’è la formalizzazione della denuncia e in seguito l’intervento di associazioni specializzate – a volte interveniamo anche noi con Tempi Moderni – per garantire alla donna un luogo di residenza sicuro, a volte una retribuzione che garantiamo direttamente e il reinserimento in un’attività lavorativa con imprese serie.
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