Memoria a lampi. Quando il “professionista del bene” è solo un bimbo timido e arruffato
Che sorprese ti sforna la memoria. Vitale e disvelatrice schizza fuori d’improvviso da pertugi misteriosi. Così ultimamente mi ha portato in dono l’immagine di un bambino. La colloco con certezza nel 1974, l’anno del referendum sul divorzio e della doppia strage di Brescia e dell’Italicus.
Eventi che avevo vissuto impotente lontano dall’Italia, prima felice poi sgomento. Tornato in patria ero andato a trovare il giovane professore di sociologia che aveva presentato la mia tesi alla Bocconi, confezionando per me un titolo che avrebbe segnato la mia vita e i miei rovelli futuri: “Il fenomeno mafioso. Continuità e trasformazione”.
Si chiamava (si chiama) Alberto Martinelli, e da un anno sognavo di andargli a fare da assistente alla giovanissima facoltà di Scienze Politiche, dove insegnava Sociologia economica.
Il professore mi accolse con gentilezza a casa sua, in uno studio traboccante di libri che, se fosse dipeso da me, mi sarei portato subito via su un camioncino. D’un tratto entrò da una stanza dietro la sua scrivania un bimbetto silenzioso con una massa di capelli arruffati. Si fermò a guardarmi con la meraviglia che si riserva agli intrusi.
Il professore mi disse “Questo è Filippo”. Aveva tre o quattro anni. Salutò timidamente. Ne ebbi subito simpatia. Negli anni lo rividi ogni tanto. Anche quando – ispirato dal padre – faceva da centromediano in una simpaticissima squadretta di calcio di adolescenti nella quale fu concesso di giocare a mio figlio, di almeno sei-sette anni più piccolo.
Tutto questo mi è improvvisamente tornando in mente quando ho scoperto che cosa faccia oggi Filippo. Sapevo che era diventato medico, sapevo che lavorava all’Ospedale Maggiore Policlinico. Non sapevo però che fosse diventato anche lui un professore universitario, associato di neurologia a Milano, che avesse molto imparato anche in Francia e negli Stati Uniti. Meno che mai sapevo che avesse fatto parte di quella schiera di medici che si è spremuta con coraggio per aiutare l’Italia a resistere alla peste cinese. Che nella stagione terribile dell’emergenza si fosse offerto volontario nei reparti anticovid, contraendo la malattia in forma seria.
Non sapevo che aveva fatto della sua professione una missione, come tutti noi vorremmo che fosse per i medici. Né che da quasi un quarto di secolo stava dedicando la sua vita alla lotta contro la sclerosi multipla, ottenendo anche importanti risultati internazionali nella ricerca.
L’ho saputo quando mi è stato recapitato con sua dedica un libro intitolato “Quando inizia un nuovo viaggio. Una vita oltre la sclerosi multipla”, splendide storie di persone, donne e uomini, imprenditori, preti, casalinghe, chef o atleti paralimpici, che hanno coraggiosamente iniziato delle nuove vite. Aiutate da una vera rivoluzione scientifica ma anche dalle decisive relazioni con chi si prende cura di loro. Come Filippo, che riserva parte del suo tempo libero a rispondere via mail ai problemi dei suoi pazienti.
Si potrà obiettare che quel che fa Filippo lo fanno per fortuna migliaia e migliaia di persone. Non risponderò che ci sono milioni di persone che “non” lo fanno. Anche perché non voglio proporre una storia eccezionale.
Eccezionale, piuttosto, è stata la mia meraviglia nel passare di colpo, grazie a un lampo di memoria, dal bimbetto intrufolatosi innocentemente nello studio del papà al “professionista del bene” cinquantenne, che scrive storie per infondere fiducia in quei 122 mila italiani che con la sclerosi multipla sono costretti a combattere ogni giorno. Mi colpisce l’idea che le vite, le “storie italiane” si formino e crescano sotto i nostri occhi senza che noi ce ne accorgiamo.
E capisco tanto meglio quella frase di Saramago: il bene dura di meno solo perché per tanto tempo non lo vediamo. Quello di Filippo dura da 25 anni e io non ne sapevo niente.
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 01/11/2021
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