Tina Merlin: una giornalista sempre tra la gente a raccontare
Tina Merlin: l’ho “incontrata” la prima volta con le parole del mio professore di storia e filosofia. Nell’ottobre 1963 frequentavo la quarta liceo scientifico a Brescia. Nei giorni del Vajont il prof arrivava con l’Unità e raccontava, ci faceva leggere gli articoli di Tina, ce la proponeva come un esempio.
Così, quando me la presentarono una decina di anni dopo a Vicenza, sapevo già che era una donna coraggiosa e una giornalista di talento.
Ma Tina è molto di più. Ho letto di recente molte delle cose che si sono scritte su di lei molti suoi articoli e i libri che riuscì a pubblicare con fatica; l’ultimo, La casa sulla Marteniga, uscì postumo nel 1993 (il primo Menica, racconti partigiani nel 1957). Ho scoperto la complessità e la grandezza di una donna che non è solo Quella del Vajont di Adriana Lotto che di Tina tratteggia “un ritratto mosso, poco idealizzato … i lineamenti di una donna del Novecento che del Novecento ha vissuto con passione e ragione gran parte delle vicende più importanti”.
Non solo quella del Vajont ma quella che il Vajont ha ferito a morte.
“… Il 9 ottobre 1963 è una stupenda giornata di sole. …
… Sono le 22,39. Un lampo accecante, un pauroso boato.
Il Toc frana nel lago sollevando una paurosa ondata d’acqua. Questa si alza terribile centinaia di metri sopra la diga, tracima, piomba di schianto sull’abitato di Longarone, spazzandolo via dalla faccia della terra.
A monte della diga un’altra ondata impazzisce violenta da un lato all’altro della valle risucchiando dentro il lago i villaggi di san Martino e Spesse.
La storia del ‘grande Vajont’, durata vent’anni, si conclude in tre minuti di apocalisse, con l’olocausto di duemila vittime.” Così scriverà Tina anni dopo nel libro Sulla pelle viva.
Le parole apocalisse e olocausto sono fortissime e testimoniano quanto il Vajont sia stato importante e doloroso a metà della sua storia adulta: partigiana Joe con il suo amato fratello Toni, il partigiano Bill ucciso il 26 aprile 1945; il matrimonio nel 1949 con Aldo Sirena, il partigiano Nerone; la nascita del figlio nel 1951 che chiamerà Toni come il fratello.
Il “giudice del Vajont” Mario Fabbri il 21 febbraio 1968 deposita la sentenza istruttoria che si apre con parole altrettanto forti, dalla Genesi: “In quel giorno le acque irruppero (…), ingrossarono e crebbero grandemente e andarono aumentando sempre più sopra la terra (…) e sorpassarono le vette dei monti (…). E ogni carne che si muoveva (…), tutto quello che era sulla terra asciutta e aveva alito vitale nelle narici, morì…”. A sottolineare quanto immane e grave fosse la tragedia.
L’accusa formulata: “disastro colposo di frana aggravato dalla prevedibilità dell’evento, inondazione e omicidi colposi plurimi”. Il giudice istruttore segnala anche la collusione tra i tecnici dell’Enel-Sade e i funzionari ministeriali tramite pressioni e scambi di favori.
Tina Merlin aveva ragione fin da quando fu denunciata insieme all’Unità nel 1959 per un articolo dal titolo “La SADE spadroneggia ma i montanari si difendono”. Racconta di 130 capifamiglia, uomini e donne, che si sono consorziati per difendersi dai soprusi della SADE, dagli espropri selvaggi delle terre. Racconta che le preoccupazioni degli abitanti del comune di Erto sono aumentate: la domenica di Pasqua del 1959 Arcangelo Tiziani, sta ispezionando i pendii attorno al lago artificiale a Forno di Zoldo, quando una grossa frana …“tonfa dentro l’acqua e si porta via l’operaio …”. Il suo corpo non sarà mai ritrovato.
L’accusa: aver fornito notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico.
Il tribunale un anno dopo sentenzia che i fatti denunciati erano veri, che il pericolo c’era ed era grave.
Ma chi considerava un articolo su “L’Unità” più pericoloso di una frana grossa come una montagna restò inerte. Chi doveva trarre le conseguenze dalla sentenza non mosse un dito anzi autorizzò la SADE a proseguire nella costruzione della diga mortale (inaugurata il 17 ottobre 1961): la SADE era il burattinaio che tirava i fili, scienziati e politici, i suoi burattini. E non scriveva certo contro il progresso, Tina, ma “contro chi in nome del progresso si riempiva il portafoglio a spese altrui” e metteva a repentaglio la vita delle persone.
È del 21 febbraio 1961 un’altra forte denuncia relativa all’invaso del Vajont a Erto: “…Una enorme massa di 50 milioni di metri cubi di materiale, tutta una montagna sul versante sinistro del lago artificiale sta franando. Non si può sapere se il cedimento sarà lento o se avverrà con un terribile schianto. In quest’ultimo caso non si possono prevedere le conseguenze. Può darsi che la famosa diga tanto decantata e a ragione, resista. Se si verificasse il contrario e quando il lago fosse pieno sarebbe un immane disastro per lo stesso paese di Longarone…”.
“Tutti sapevano, nessuno si mosse”, poté scrivere il giorno dopo il disastro Tina Merlin. Gli altri giornali che mai avevano denunciato il grave pericolo, arrivarono a piangere sui morti, sostenendo che si era trattato di un’imprevedibile catastrofe naturale. Come continua a fare Il Gazzettino con un articolo di Carlo Nordio nel 58° anniversario della tragedia, tentando di collocarsi a metà strada tra le due “verità” fin dal titolo “Quella frana sul Vajont che ancora divide l’Italia”: la risposta di Toni Sirena è chiara e netta. Si dice che dopo la tragedia gli abitanti non accolsero i giornalisti venuti da ogni dove ma solo Tina: gli uomini, davanti a lei, si toglievano il cappello e le donne l’abbracciavano piangendo.
Il percorso giudiziario sarà lungo e tormentato a partire dal 10 maggio 1968, quando la Cassazione trasferisce il processo a L’Aquila “per legittima suspicione”.
La sentenza definitiva arriva il 25 marzo 1971, quindici giorni prima della prescrizione; con pene lievi agli imputati ma riconoscendo la prevedibilità dell’evento e la loro responsabilità per disastro colposo di frana inondazione omicidi colposi plurimi.
Per quanto riguarda il percorso civile e i risarcimenti: una vicenda lunghissima e triste. Da segnalare che il presidente del Consiglio Giovanni Leone, in visita a Longarone dopo l’apocalisse, aveva assicurato l’impegno per individuare le responsabilità e anche gli aiuti per la ricostruzione. In realtà, decaduto da presidente, fu uno degli avvocati difensori della SADE e dei suoi complici. Fu lui a invocare la commorienza, prevista nel codice civile articolo 4, in base al quale i nipoti non vennero risarciti per i nonni morti insieme ai loro genitori.
Leggendo i lavori di Tina prima e dopo questa tragedia si capisce che lo fa con continuità tenacia forza perché si tratta dell’amore per il “suo” territorio e per la gente di là; “Lei, per nascita e per scelta è con loro, non semplicemente dalla loro parte…è una di loro”, scrive Toni Sirena nell’incipit di La rabbia e la speranza.
“Il cammino della miseria”: undici articoli nel solo mese di gennaio 1953, è una vera e propria inchiesta. Racconta dei ventimila emigranti che ogni anno vanno all’estero; delle famiglie divise e della fatica doppia delle donne; delle ricchezze naturali e delle possibilità di lavoro che non mancherebbero nella provincia; sviluppa dieci proposte per investire sui punti forti della montagna: l’acqua, la terra, il legname, la frutticoltura, l’artigianato e anche l’industria da sviluppare; operando, per esempio, “sui 24 bacini montani per opere di sistemazione idrogeologica necessaria, si possono creare almeno cinquemila posti di lavoro!” Racconterà di una proposta di legge d’iniziativa popolare sulla montagna presentata l’8 marzo del 1959, utilizzando l’articolo 71 della nostra Costituzione per la prima volta e a conclusione di un lavoro di anni.
Poi ancora, dopo l’olocausto, a raccontare le conseguenze dell’abbandono della montagna e i disastri nel Comelico, la grande alluvione del 1966, la morte di altri bellunesi all’estero, “salvarsi dal Vajont per morire in Svizzera”.
Si tratta per lei di proseguire l’impegno e la scelta che fece di entrare nella Resistenza per la libertà e la giustizia “…per una Patria dove anche i contadini e gli operai potessero riconoscersi e anche le ragazze-serve…”.
Lo conferma un articolo su L’Unità del 18 ottobre 1963.
”…Molti dei morti di Longarone furono gli stessi che, insieme a partigiani emiliani, difesero dalla distruzione tedesca, a rischio della loro vita, gli impianti della SADE pensando che dopo sarebbero divenuti cosa di tutti. Non solo speranze tradite ma gli errori della società elettrica e dei governi li ha uccisi sotto una montagna di fango … “
Su “Rinascita” Tina, indomabile, il 28 dicembre 1963 racconta il cinismo della SADE e di come ottenne la concessione per lo sfruttamento delle acque del Vajont.
“…Il decreto porta la data dell’ottobre 1943. L’Italia era precipitata nel caos … A Roma, in quei giorni gli ebrei venivano rastrellati dai tedeschi. Nulla più era efficiente. Le donne italiane rivestivano di abiti borghesi i soldati fuggiaschi per sottrarli alla cattura. L’unica cosa valida di quei momenti erano i gruppi antifascisti che si andavano organizzando per la lotta partigiana. Eppure, dentro il ministero dei Lavori Pubblici di Roma, la SADE trovò o pagò un funzionario disposto a mettere un timbro e una firma di un ministro fasullo sotto la concessione. … Mentre il popolo italiano pensava ad organizzarsi e a lottare per la liberazione del paese, moriva per i propri ideali di democrazia e di giustizia sociale, la SADE maneggiava nei ministeri, imbrogliando le carte, per non perdere quella che credeva l’ultima partita. Il Vajont aveva avuto un assurdo inizio prima di avere una tragica fine”.
Questo episodio vergognoso era stato confermato con imbarazzo dal ministro dei lavori pubblici Fiorentino Sullo durante la vivace seduta della Camera dei deputati del 15 ottobre 1963 sull’ interpellanza presentata dall’on. Franco Busetto del Pci.
Franco Busetto (e poi Mario Alicata, direttore de “L’Unità” 1962 – 1966) ricorderà, nella stessa seduta, l’impegno assiduo appassionato di Tina con i suoi tantissimi articoli prima e dopo il 9 ottobre 1963. Un importante riconoscimento: Tina collabora con “L’Unità” da quando vinse un concorso sulle donne nel 1951 ma sarà assunta solo nel 1972.
Fa una rivelazione importante, l’on. Busetto: “… il signor Lucio Rizzato, un tecnico dell’Università di Padova è stato perquisito e arrestato nella notte ed è in carcere su denuncia del professor Augusto Ghetti, titolare della cattedra di idraulica alla medesima Università e consulente della SADE. … L’accusa: aver sottratto documenti riguardanti gli impianti del Vajont”. Si tratta di un documento che descrive l’esito della simulazione (su modello in scala 1:200) per valutare gli effetti di un’eventuale frana nel lago serbatoio del Vajont. La relazione è redatta e firmata il 3 luglio 1962 proprio dal professor ing. Augusto Ghetti. Contiene elementi che sono stati taciuti e di estrema gravità: dimostrano che la SADE e l’ENEL sapevano quello che sarebbe potuto succedere. Con questa “sottrazione” il documento potrà essere consegnato alla Commissione parlamentare d’inchiesta che però sosterrà a maggioranza l’imprevedibilità dell’evento (diversamente la relazione di minoranza a pag.16).
Si tratta per Tina di continuare il suo sguardo sulle donne la loro condizione e l’impegno non solo per l’emancipazione ma per la libertà, come aveva appreso durante la Resistenza. Anche su questo terreno rintracciamo la sua “modernità” con un’idea forte della politica. “È proprio la politica che mi fa veramente vivere. Il mondo che sognavo da bambina, quand’ero a servire, mi s’è aperto, esiste, io esisto col mondo”.
Non pensava alle donne come un soggetto debole ma il soggetto forte in grado di produrre cambiamenti radicali: “…la società nazionale e bellunese non potrà mai cambiare, mai progredire senza l’apporto femminile anche e soprattutto nel campo pubblico … là dove si discutono e si impostano i problemi della collettività costituita in maggioranza da donne. Non si potrà mai parlare … di democrazia fintanto che le donne non avranno assunto il posto loro dovuto negli organismi pubblici ”.
Una risposta forte al Gazzettino, è il 1964, che dava rilievo alle posizioni della Democrazia Cristiana per continuare a sostenere: “… la donna per non perdere la propria femminilità deve assommare le tre note virtù di Cecco Beppe: casa, chiesa e bambini. Si dà il caso invece che la donna svolga un’attività di primo piano nella società produttiva in tutta la Provincia…”.
Tina affronta anche il tema dei femminicidi e della violenza sulle donne. Lo fa con durezza nei confronti del “mostro” e con uno sguardo tenero, è la pietas, nei confronti della vittima.
Lo fa raccontando una storia “Tra breve il processo al mostro di Busto”, la storia di Silvia che è la storia di quasi tutte le ragazze bellunesi che hanno bisogno di lavorare … che devono fare fagotto ed emigrare all’estero o in qualche grossa città d’Italia dove le loro robuste braccia trovano di che logorarsi sfregando pavimenti. … A casa esse mandano sempre a dire che stanno bene affinché la mamma non sia troppo in pensiero; che già è una pena aver dovuto abbandonare al mondo la sua creatura…Un giorno la mamma di Silvia aspettò invano la sua lettera … l’aspettò per mesi e dopo si scoprì che Silvia era morta, di fame o di sfinimento, segregata in una cantina dove il vecchio (il mostro) l’aveva nascosta per i suoi insani scopi …”.
Era il 22 gennaio 1953.
Se il Pci avesse candidato ed eletto Tina Merlin in Parlamento molte cose forse sarebbero iniziate, anche per le donne, prima degli anni ’70!
Fu eletta nel Consiglio provinciale di Belluno. Scrive Adriana Lotto: “…attenta ai problemi, politica per dovere di parte (come quando contesta che l’unico rappresentante del Msi, Corrado Fabbro, possa presiedere la prima seduta del Consiglio il 14 gennaio 1965 proprio nell’anno del ventennale della Liberazione) ma soprattutto suggeritrice di soluzioni. Perché i problemi, glielo ha insegnato la vita, vanno affrontati e risolti per il bene di tutti…”.
Si tratta di un lavoro enorme il suo, di studio e d’impegno. È un’autodidatta Tina, come è successo a molti “resistenti” che non avevano nemmeno la licenza elementare. “… Lei (la madre) prende sottogamba la mia professione. Prima di tutto perché le sembra impossibile, non crede ancora che sia davvero riuscita a raggiungerla senza andare a scuola e prendere un diploma, … … e poi perché non rende: scrivo per un giornale militante”.
Studio e impegno assieme alla capacità di stare con le persone in carne ed ossa, di capire le situazioni, le sofferenze non solo della sua gente di montagna. Lo si vede in modo esplicito nelle riflessioni in cui racconta dei ceramisti di Nove (il libro per vicende “amare” vedrà la luce solo nel 1982) e, prima, dei tessili della Marzotto di Valdagno con Avanguardia di classe e politica delle alleanze (Ed. Riuniti 1969). Il titolo non dà conto del pensiero, dello stile di Tina e delle novità che propone.
Nell’incipit scrive “Nella provincia più ‘bianca’ del Veneto dominata dal conservatorismo cattolico, nella quale la Democrazia Cristiana ha sempre attinto la stragrande maggioranza dei consensi elettorali e ricevuto quella particolare impronta di volontà integralista del suo potere, qualcosa si è rotto ultimamente sul piano delle coscienze … creando problemi ai suoi dirigenti … a cominciare da Rumor perché … “l’isola vicentina come un quieto angolo del paese non c’è più …”.
Sono venuti al pettine i nodi delle crisi e delle ristrutturazioni che non possono più gravare ancora sulla pelle viva dei lavoratori in termini di carico di lavoro, impoverimento progressivo delle qualifiche professionali, ambiente salute e sicurezza. A Belluno vedeva la gente di là protagonista di possibili cambiamenti. A Valdagno il nuovo soggetto è la classe operaia che, dopo l’abbattimento della statua di Marzotto senior riesce, con l’occupazione della fabbrica e su una piattaforma sindacale unitaria, con il sostegno/solidarietà della città, primi fra tutti i giovani studenti, ad arrivare a conquiste innovative per i miglioramenti del lavoro e soprattutto l’inedito diritto d’assemblea in fabbrica con la presenza dei sindacati, i Consigli di fabbrica e di reparto eletti direttamente dai lavoratori e lavoratrici.
Con il Pci vicentino l’esperienza è forte e le farà scrivere che “i comunisti svolsero in questa fase un ruolo determinante per far uscire la lotta operaia dalle secche in cui poteva cacciarsi … durante questa eccezionale esperienza, condotta come protagonista, la classe operaia ha capito di essere classe dirigente …”.
Lei che non era tenera con il Pci ma a Vicenza si stava costruendo un gruppo di giovani dentro e fuori il partito che con lei avevano un buon rapporto dialettico. Per dare l’idea di come era fatta Tina riporto una storia modesta e grandiosa insieme: lei aveva aiutato Gianpaolo Bassetti, un giovane del Pci di Vicenza alla stesura nella sua tesi di laurea sulla Vallata dell’Agno e la Marzotto. Tina partecipa insieme Romano Carotti, segretario comunista di Vicenza e ad Andrea Cestonaro (che diventerà segretario della Federazione dopo Carotti) alla discussione della tesi all’Università di Venezia Ca’ Foscari. Ad un certo punto interrompe il professore e parla, spiega come stanno le cose! La storia finisce bene: Tina aveva rotto ogni rituale ogni regola consolidata; Bassetti si laurea con ottimi voti e diventerà consigliere regionale all’esordio delle Regioni.
Dialogava con il mondo culturale Tina, da Goffredo Parise ad Andrea Zanzotto a Mario Rigoni Stern che scrisse anche la prefazione a “La casa sulla Marteniga”.
Una vita complessa dunque quella di Tina che qui è solo tratteggiata: il prossimo 5 novembre al teatro comunale di Belluno una giornata sarà a lei dedicata.
Dopo la metà degli anni ’80 ritornerà a occuparsi delle sue montagne. E continuerà a chiedersi: “… Quale sarà lo sviluppo dell’umanità in senso economico ma soprattutto umano partendo da un dato di fatto: l’esistenza di nuovi saperi e nuove tecnologie capaci di fornire benessere ma anche distruzione … chi deve scegliere tra autodistruzione e sopravvivenza?”.
Straordinaria attualità forte della sua esperienza e che ci indica una strada da percorrere: ”La libertà non è star sopra un albero. Libertà è partecipazione ”.
Tina due giorni dopo l’apocalisse scrive queste lucenti parole che indicano che per lei partecipazione è un rapporto biunivoco dall’alto e dal basso che vede la gente protagonista: “Sto scrivendo queste righe col cuore stretto dei rimorsi per non aver fatto di più per indurre il popolo di queste terre a ribellarsi alla minaccia mortale e che ora è diventata una tragica realtà. Oggi tuttavia non si può soltanto piangere. È tempo di imparare qualcosa”.
Mi sembra appropriato per Tina Merlin, che avrei voluto conoscere più a fondo, chiudere questa riflessione con le parole meno citate e declinate al femminile del noto articolo di Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera del 14 novembre 1974 “Io so”.
“… Io so perché sono una intellettuale, una scrittora, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero”.
Fonte: Articolo 21
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