Vita avventurosa di Velia e Tinin, artisti innamorati tra maschere, palco e tv
La Velia e il Tinin. Eccoli lì in quella foto in bianco e nero che solo al microscopio ne riconosci i lineamenti. Sposati per 63 anni. Poi il Tinin, inteso come Agostino Mantegazza, l’anno scorso se ne è andato.
E la Velia, anche lei intesa come Mantegazza, ha deciso che la memoria di quel che avevano fatto insieme nella vita, e soprattutto quel che aveva fatto lui, doveva rimanere. Solida, affascinante, ma più di tutto divertente. E socialmente utile.
Perché la vita dei due è stata piena di avventure e di creazioni, miscuglio inestricabile di risata e di impegno, intrisa di Milano e di Romagna. Sempre in movimento, giocata su più dimensioni. Le illustrazioni, le scenografie, il cabaret, la poesia in filastrocca, la televisione, con punte stratosferiche nella leggendaria tivù dei ragazzi, e il giornalismo, quello politico come quello del “Corriere dei piccoli”. E il teatro, e la musica; in cui specialmente Velia si è cimentata, amica e scenografa di Roberto Vecchioni e Ricky Gianco, Franco Battiato e Gino Paoli, Ornella Vanoni e Umberto Bindi.
È nata così, su impulso di lei, una mostra che a stento riesce a dare un’idea del lavoro artistico svolto da questa rara coppia, benché intitolata solo a “Tinin Mantegazza. Le sette vite di un creativo irriverente”. Maschere su maschere – suggestive, beffarde, inverosimili – usate in altre epoche per le fantastiche avventure da narrare ai piccoli telespettatori. Animali e caricature umane. Tavole di acquerelli ironici e compatti, disegni dal tratto inconfondibile con una satira spesso irresistibile degli uomini del potere: politici ma anche militari, verso i quali in gioventù il Tinin non dové nutrire speciali simpatie.
Ma non voglio fare qui (impropriamente) la recensione della mostra.
Desidero invece semplicemente “inchinarmi” all’amore che ha legato questi due artisti generosi per un tempo, fortunatamente per loro, quasi infinito. E ricordarli ai più giovani.
Perché ripassare le atmosfere degli anni cinquanta e sessanta, la galleria d’arte “La Muffola”, il Cab 64, locale di cabaret eccelso, ospiti Cochi e Renato, Gaber e Jannacci o anche Umberto Eco, risentire “Il vento dell’est” cantato da Ricky Gianco, e osservare Velia che si industria di portar gente sul palco, ridere di quella vita così piena, dare il via a canzoni o memorie o recite di brani, è come tenere insieme settant’anni, rivedersi pezzi della storia nostra ma anche di quella politica, culturale e civile nazionale, alla cui costruzione questa coppia ha -per quanto le era possibile- partecipato, senza sognare mai nemmeno per sbaglio il momento del riposo.
E questo nonostante il Tinin gli ultimi anni li abbia dovuti trascorrere, sempre con ironia, senza più autonomia di movimento. Una vera miscellanea, in un mondo quasi senza confini. Dove la stampa di sinistra conviveva, per la pagina dei cinema, con un quotidiano della sera come “La Notte”, di perentoria foga conservatrice; o dove i burattini convivevano con lo “Stolfo di Ferrara”, opera di successo liberamente tratta dall’”Orlando furioso”.
Durante la recente serata inaugurale gli ospiti si alternavano sul palco chiamando gli applausi alla memoria di chi non c’è più. Lei, pudica, timorosa di eccedere o di cedere alle emozioni, non l’ha mai fatto, anche se quegli applausi erano un modo per ricongiungersi a lui, rimasto immobile e sornione tutto il tempo in una gigantesca immagine sullo schermo.
E mentre abbracciava uno per uno gli ospiti venuti a vedere la mostra del marito sussurrava, con tenerezza materna, “aveva dentro di sé la freschezza del fanciullino”. Esattamente la stessa che mostrava lei, però. Effervescente, commossa di gioia, nel suo vestito lungo d’amaranto. Fanciullina anche lei, ahimè. Perché le separazioni tra fanciulli sono più dolorose. Specialmente se si è stati sposati per due terzi di secolo.
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 18/10/2021
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