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Trattativa, gli insulti da bar sport che cancellano la complessità

Gian Carlo Caselli il . Giustizia, Istituzioni, Mafie, Politica, Sicilia, Società

Un vecchio vizio. Si vorrebbe che da certi fatti di mafia i giudici stessero fuori

Premesse  banali: tutti i  processi sono difficili perché riguardano per lo più vicende incerte prospettate dalle parti con versioni contrastanti; la valutazione del materiale raccolto è strutturalmente opinabile; gli esiti possono essere diversi nei vari gradi di giudizio, perché se questi fossero destinati semplicemente ad essere la fotocopia l’uno dell’altro non avrebbero nessuna ragione di esistere; nasce di qui la necessità della motivazione per consentire alle parti di contestarla e all’opinione pubblica di controllarne l’attendibilità e coerenza.

Queste premesse valgono anche nei processi di mafia, ma con differenze profonde a seconda del lato del “pianeta mafia” interessato. Se si tratta del lato militare o gangsteristico della mafia (quello che riguarda i boss che uccidono, estorcono o  trafficano in droga) di problemi ce ne sono sempre – anche gravi – ma sono niente rispetto a quelli che comporta l’altro lato del pianeta, quello oscuro, dei  rapporti segreti di collusione o connivenza con pezzi del mondo legale, il fulcro del potere mafioso. Qui i contrasti interpretativi si fanno roventi;  l’accertamento della verità può diventare un sesto grado; i percorsi processuali a volte ricordano… le palline del flipper.

Prendiamo il processo Andreotti: si conclude con una sentenza che lo riconosce responsabile (reato commesso) fino al 1980, ma lo assolve  per gli anni successivi. Oppure Marcello Dell’Utri: condannato per concorso esterno in Cosa nostra solo fino al 1992 e non anche per gli anni seguenti. Oppure Calogero Mannino: condannato in Appello per concorso, si vede annullata la condanna dalla Cassazione, che ordina un nuovo processo stabilendo nel contempo – a partita in corso – una regola interpretativa di cui Mannino può beneficiare, diversa da quella con cui il processo era iniziato.

Oppure ancora, per venire all’oggi, il processo della cosiddetta trattativa stato-mafia. Tutti gli imputati (mafiosi, politici e ufficiali del ROS) riconosciuti come “trattativisti” dal GIP e in quanto tali condannati dalla corte d’assise di Palermo in primo grado. In appello però le condanne vengono confermate solo per i mafiosi, mentre del politico dell’Utri si dice che non ha commesso il fatto e dei Carabinieri che il fatto non costituisce reato. Calogero Mannino, uno dei rinviati a giudizio, sceglie il giudizio abbreviato e viene assolto fino in Cassazione, con una sentenza che è possibile abbia avuto un peso rilevante nel giudizio d’appello riguardante gli altri imputati.

Sarà la motivazione, anche questa volta, che consentirà di valutare l’attendibilità e coerenza delle scelte operate. Sia come sia, c’è comunque una sorta di “fil rouge” che sembra legare i processi di mafia ad “imputati eccellenti”, per le “singolarità” che si riscontrano rispetto agli altri processi. È possibile che ciò dipenda dalle obiettive maggiori difficoltà probatorie che si hanno quando si tratta di “relazioni esterne”, per loro stessa natura tenute quanto più possibile “riservate”, e comunque protette da ben organizzate campagne negazioniste. Brodo di coltura per un “virus” che porta a riconoscere in teoria la pericolosità della mafia per le sue connessioni col potere legale, per poi perseguire, nelle prassi giudiziarie, solo l’ala militare dell’alleanza.

Un virus che si spera in via di estinzione, mentre è certo che sono riprese (attraverso letture superficiali e semplicistiche – a dire davvero poco – del processo “trattativa”) le aggressioni ai magistrati giudicanti che in primo grado non hanno assolto e prima ancora agli inquirenti che hanno sostenuto l’accusa.

Si sprecano parole “forti”:  schifezza, farsa, caccia alle streghe, crollo di accuse assurde, boiate pazzesche, teoremi totalmente inventati….. Insulti di cui non val la pena discutere.

Merita invece attenzione la tesi che contesta ai magistrati di voler ricostruire gli accadimenti storici in ottica pregiudizialmente strumentale all’individuazione di responsabilità penali, così forzando le interpretazioni storiografiche. Tesi che riecheggia le strambe parole di  quel procuratore generale presso la Corte di Cassazione che, nel processo per l’assassinio del sindacalista siciliano Salvatore Carnevale, se ne uscì sostenendo che “gli imputati non sono mafiosi, bensì portatori di una mentalità mafiosa. La mafia è materia per conferenze e come tutti i problemi sociali esula dalle funzioni della corte di Cassazione”.

Come a dire che non è una novità la tendenza ad escludere la competenza dei magistrati per certi accadimenti di mafia.

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 27/09/2021

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