Il piccolo Di Matteo, vittima della mafia e ora della burocrazia
Il dovere di ricordare. La vicenda della statua fa il gioco dei boss
Questo intervento è per me un atto dovuto, una specie di debito morale inestinguibile, da onorare per quanto si può.
Un morto lo si può uccidere di nuovo: con la calunnia o con l’indifferenza organizzata o con pratiche burocratiche idiote. Tutti sistemi, quando si tratta di una vittima di mafia, che fanno il gioco dei boss.
E’ il caso del piccolo Giuseppe di Matteo. Una sua statua-ricordo, già collocata nel municipio di San Giuseppe Jato, è stata coperta e nascosta con un lenzuolo in attesa di essere portata via, chissà dove. Chi aveva autorizzato, avendone titolo, l’esposizione della statua, sostiene ora che senza una delibera del Comune non si può. Farisaica versione di un “problema” increscioso che andrebbe comunque immediatamente risolto. Evitando che mafia e dintorni se la ridano vedendo che nella Sicilia di Pirandello la strage di Capaci trent’anni dopo viene ignobilmente trattata alla stregua di una farsa.
Ecco, per chi non li ricordasse o non li conoscesse, i fatti.
Il boss Santino Di Matteo, arrestato per diversi omicidi dalla Procura di Palermo che allora dirigevo, vuole parlarmi. Quando gli chiedo che cosa avesse da dirmi, penso ai delitti contestati sull’atto d’accusa che ha in mano. Di Matteo in effetti comincia ammettendoli in blocco, ma aggiunge di voler prima di tutto parlare del fatto più grave da lui commesso. E se ne esce con una parola che mi risuona ancora dentro come un’emozione trepida e dolorosa: «Capaci».
Subito nella memoria affiorano le immagini tremende dell’autostrada squartata, insieme ai volti di Giovanni Falcone e delle altre vittime, mentre Di Matteo in un lungo interrogatorio (dalle 01,45 alle 04,10) mi racconta per filo e per segno l’esecuzione materiale della strage del 23 maggio 1992. E’ in assoluto la prima volta che qualcuno lo fa. Di Matteo può farlo perché è stato uno degli esecutori materiali. Sono quindi il primo a raccogliere una confessione (drammaticamente coinvolgente) che ricostruisce un episodio così influente nella nostra storia: una verità attesa da un Paese intero, l’attentatuni (nel linguaggio di Cosa nostra) diretto a colpire il cuore della democrazia.
Per questa confessione Di Matteo (ma anche l’intera comunità civile) pagherà un prezzo terribile: il sequestro, il 23 novembre 1993, del figlio tredicenne Giuseppe. Che, dopo 779 giorni di maltrattamenti e torture, verrà strangolato e sciolto nell’acido dai suoi carcerieri. Un omicidio che sprofonda il genere umano negli abissi della crudeltà. Una mostruosa rappresaglia da nazisti, altro che sedicenti “uomini d’onore”. E tutto questo sol perché Giuseppe Di Matteo era figlio di suo padre, il pentito che per primo aveva rivelato il segreto dei segreti di Cosa nostra.
Gesualdo Bufalino nel romanzo “Diceria dell’untore” narra di un trattenimento del teatro dei pupi nel corso del quale la voce del puparo ripeteva nell’ombra: “Ah i destini degli uomini, una spugna bagnata li cancella come una pittura”. Neppure lo stile alto e ironico di Bufalino avrebbe mai potuto inventarsi una spugna squallida come le contorsioni burocratiche che vorrebbero cancellare la memoria di Giuseppe di Matteo.
Recentemente, nell’aula bunker dell’Ucciardone, proprio rievocando le vittime di Capaci, il Presidente Sergio Mattarella ha ammonito tutti noi con parole chiare: “La mafia esiste tutt’ora…o si sta contro la mafia o si è complici dei mafiosi”. Parole che valgono per chiunque, in qualunque modo o circostanza, abbia a che fare con questioni attinenti alla mafia. E di certo non stanno contro la mafia coloro che sviliscono il significato e l’importanza del destino del piccolo Di Matteo (anch’egli una vittima indiretta di Capaci) giocando con la sua statua come fossero al teatro dei pupi.
Fonte: Corriere della Sera, 14/09/2021
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