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Viaggio a Lesbo, nel cimitero dei diritti umani

Chiara Semenza il . Giustizia, Migranti, Politica, Società

“Perché noi sì e loro no?” è la domanda che assilla una volontaria occidentale al suo ritorno a casa. Chiara Semenza, magistrato di sorveglianza genovese, racconta l’esperienza nel campo profughi di Moria nell’isola greca di Lesbo, dove oltre la metà dei rifugiati è in età infantile e parte di loro non ha conosciuto altra dimora. Miseria e negazione dei diritti più elementari sono vissuti come un fatto ineluttabile, ma senza rifiutare un sorriso e una composta gratitudine a chi arriva per alleviare le sofferenze

Il 21.8.2021 inizia il mio viaggio per l’isola greca di Lesbo, ai confini sud orientali dell’Europa, dinanzi alle coste turche dalle quali dista una manciata di chilometri. La proposta di un viaggio improntato alla solidarietà internazionale mi è stata avanzata dalla Comunità di Sant’Egidio di Genova, che ormai da tre estati si reca (anche) in terra greca per offrire un aiuto concreto ai migranti lì confinati nel campo profughi.

La scelta

Da magistrato di sorveglianza, abituata a lavorare a contatto con una popolazione di detenuti stranieri aventi un passato di migrazione, penso che un’esperienza di questo tipo, oltre alla finalità di umana solidarietà, potrebbe rappresentare un tassello ulteriore per la mia formazione professionale.

In un primo momento sono però incerta sul fatto di essere all’altezza, di sapere gestire emotivamente la situazione che mi attende o, ancora, di riuscire ad affrontare un contesto di eventuale pericolo: mi hanno parlato di gruppi di giovani neonazisti che hanno trascorso in passato le vacanze proprio a Lesbo, con lo scopo di trovare l’occasione per aggredire i migranti all’atto dello sbarco sulla costa.  Bastano però pochi giorni di riflessione per farmi capire che il bisogno di conoscere una realtà così distante, ancorché europea, e di tale portata supera ogni mia esitazione o paura. Decido quindi di partire.

Il viaggio è ovviamente lungo, ma non insopportabile, ed è così che alla sera, assieme ad alcuni compagni di missione, arriviamo all’aeroporto di Mitilene, città in cui pernotteremo, ospiti della stessa struttura di altri volontari che sono giunti non solo dall’Italia, ma da diverse parti d’Europa: al momento del mio arrivo siamo circa quaranta italiani, tra genovesi e romani, e dieci ragazzi cechi e slovacchi.

Domenica 22 agosto: l’arrivo al campo

Il campo profughi è oggi chiamato Moria 2.0 dal momento che nel settembre 2020 l’originario accampamento, che allora arrivava a ospitare 22.000 profughi ed era ubicato altrove, è stato incendiato. Se n’è resa perciò necessaria una collocazione diversa, seppure sempre a Lesbo. Di qui la nuova denominazione. Il nuovo campo ha dimensioni più ridotte: attualmente ospita circa 4.300 persone, di cui più della metà è costituita da bambini; le etnie prevalenti sono afghana e siriana, in misura significativamente inferiore sono presenti africani. I profughi considerati in eccesso e presenti invece fino a settembre 2020 sono stati ridistribuiti fra altri campi nella Grecia interna o in quella un tempo denominata Tracia.

Gli sbarchi attuali sull’isola sono invero contingentati ad esito del monitoraggio delle acque costiere da parte di Frontex, l’Agenzia Europea della Guardia di frontiera e costiera. Questa è oggi sotto processo dinanzi alla Corte di Giustizia UE, dopo che due migranti, supportati da diverse organizzazioni non lucrative, ne hanno denunciato respingimenti non autorizzati e condotte che configurano palesi violazioni dei diritti umani.

Nel corso delle riunioni che si tengono per organizzare le attività apprendo che il nuovo campo – che si estende su una collina pietrosa dinanzi al mare – è in condizioni lievemente migliori di quello precedente, semplicemente perché vi sono strutture in compensato o tende impermeabili per ripararsi, anziché semplici teli; inoltre sono oggi presenti luce elettrica ed un maggior numero di servizi igienici, ancorché non per singolo alloggio; l’acqua potabile è distribuita in diverse fontane, nelle cinque zone del campo, con erogatori multipli. Ai disabili è dedicata un’area più a valle, delimitata in parte dal canale (a cielo aperto) di scolo dei liquami.

Sento spesso parlare nelle descrizioni di mental desease. A poco a poco, grazie ai racconti di volontari più esperti e degli stessi migranti, capisco che tra i profughi i disagi psichici sono frequenti, legati all’esperienza traumatica vissuta; perciò non sono isolati i casi di bambini che si svegliano alla notte con crisi di pianto poiché hanno assistito al rogo della propria casa o all’uccisione di un parente, di bambini con disturbi nell’eloquio e di bambini dallo sguardo ancora traumatizzato; non mancano adulti rimasti invalidi nel corso della traversata.

Il campo è oggi chiuso: i migranti, salvo specifiche deroghe, possono allontanarsene solo per tre ore al giorno con obbligo di rientro entro le 20; al sabato devono rientrare addirittura entro le 18; la domenica nessuna uscita viene consentita; sono vietate le foto all’interno.

Alla Comunità di Sant’Egidio è consentito l’accesso al campo da parte della Direzione dello stesso solo per lo svolgimento di attività didattiche, ludiche e di distribuzione del vitto in un’area esterna, collocata presso uno degli accessi laterali di Moria 2.0.

Secondo l’organizzazione dei lavori decisa dalla Comunità stessa, la mattina è dedicata alle attività ludico-scolastiche (l’inglese è la lingua-veicolo) in favore dei minori, infanti e adolescenti, che consumano sul posto anche il pranzo. Nel pomeriggio tutte le tende della solidarietà (così sono chiamate dalla Comunità di Sant’Egidio) vengono rivoluzionate ed allestite per la distribuzione del vitto a tutti i profughi invitati al ristorante. La sera è volta al riordino, alla pulizia ed alla nuova preparazione dei banchi di scuola per la mattina successiva.

I ritmi sono ben scanditi, i compiti affidati a ciascun volontario sono davvero molti, ed ogni giorno vengono ridistribuiti in modo tale che ognuno possa partecipare a tutte le attività, conoscendo così il numero maggiore di persone e di storie.

Lunedì 23 agosto: “hi teacher

La mattina vengo destinata alle attività ludiche da svolgere insieme ad un gruppo di bimbe afghane di otto-nove anni; arrivano alla struttura scaglionate in gruppetti di amiche o parenti, trasportate da un piccolo pulmino di volontari. Corrono gioiose verso i banchi colorati: nel campo infatti mancano del tutto i colori accesi, gli unici che si vedono sono il bianco (delle tende), il grigio (della ghiaia) ed il marrone (della sabbia); il verde è presente solo in un piccolo angolo dove è stato piantato qualche albero. Nulla più.

Qualche bambina arriva munita della cartella che le è stata fornita all’inizio del progetto (avviato quest’anno il 18 luglio), qualche altra se l’è dimenticata nella tenda, qualche altra ancora porta con sé solo il proprio quadernino; al cancello di ingresso è un susseguirsi di voci stridule che esclamano “hi teacher”, “how are you teacher?” ed è subito una gara di corsa per raggiungere per prime la scrivania ed aggiudicarsi il posto più gradito.

I pennarelli e le matite non mancano, così come gli acquerelli e le tempere; è tenero ritrovare nei disegni le stesse immagini che tutti noi occidentali abbiamo riprodotto da piccoli: una casa, un prato verde, il sole, gli uccelli. Viene da domandarsi come possano queste bambine conservare la memoria della dimensione domestica, dal momento che in alcuni casi dimorano nel campo anche da tre anni: “such a long time, teacher.

La loro euforia è tale che è difficile da contenere. Ci vogliono tante idee, sempre nuove, per riuscire a trasmettere le prime regole (mantenere la fila; lavare le manine prima del pasto; rimanere seduti al banco) e per strappare qualche sorriso nell’esercizio di qualche nuova attività.

Terminata la didattica del lunedì mattina, nel pomeriggio, assieme ai miei compagni, vengo impegnata nell’allestimento del ristorante, con igienizzazione e disposizione dei tavoli in modo da rispettare la distanza di sicurezza in occasione della cena e successiva distribuzione dei pasti per tutte le persone che arriveranno (nei giorni di mia permanenza la media di pasti servita ha superato i cinquecento giornalieri).

Colpisce la dignità di molti tra quanti sono seduti ai tavoli; nel loro volto – spesso rivolto verso il basso come a provare vergogna per quella opportunità – si leggono ritrosia, timore, rispetto e tristezza; al termine della cena mille sono i ringraziamenti verso chi serve, chi aiuta, chi pulisce o sparecchia; mi domando se anche io sappia essere tanto felice dopo avere consumato un pasto.

E poi si è di nuovo a pulire, risistemare i tavoli per la scuola del giorno dopo, allestire ancora la sala e preparare le scorte di cibo per i giorni a venire.

Martedì 24 agosto: miseria, liquami, risate di bambini

La mattina entro finalmente al campo di Moria 2.0. Sono insieme ad alcuni compagni e ad Alì, mediatore culturale di riferimento di nazionalità afghana. Visitiamo la zona che ospita alloggi prefabbricati in compensato e alcune tende, queste posizionate sulla parte più alta della collina; sono dimore abitate sia da famiglie (talora 6-8 persone in una superficie che a colpo d’occhio risulta circa di 8 metri quadri), sia da singoli e da lontano, sentendo le tante urla ed un buon baccano, capisco che è una zona popolata da bambini.

Nel tragitto ne incontriamo tantissimi, taluni davvero piccoli (sono molti i bambini che nati e vissuti solo nel campo) e poco oltre vediamo un gruppetto di bimbi afghani di cinque o sei anni che gioca, qualcuno anche scalzo, in un piccolo lembo di terra attraversato da liquami; così tanta desolazione mi ferisce ed offende: perché a quei bambini non è riconosciuta la stessa dignità che pretendiamo per un nostro figlio, nipote o conoscente?

Ci avviciniamo alla prima area di accampamento che andremo ad esplorare; l’aria è mefitica, la zona è altamente abitata e attorno alla struttura è un ammassarsi di persone, oggetti, cibo, rifiuti, pozzanghere e liquidi di scolo.

Bussiamo alla porta di diversi alloggi (divisi per zone, numeri e lettere) per incontrare le persone, invitarle a consumare il pasto alla mensa della Comunità e per ascoltare le loro storie e raccogliere le loro testimonianze.

Tutti i racconti che raccogliamo sono accomunati da sofferenza, morte e solitudine; sono i bambini a regalare un sorriso quando a turno strillano per uscire dalla tenda, per giocare o perché incuriositi dalla nostra presenza. E’ stupefacente come nessuno si lamenti dell’ingiustizia della propria sorte, nessuno esterni rabbia o rancore verso chi ha negato loro i più elementari diritti. Ciò che invece trapela dalle loro parole è voglia di salvezza, anche se in molti casi (dopo tanti respingimenti subiti ad opera di diversi Paesi) è la rassegnazione a sovrastare le loro storie.

Passiamo diverse ore a conoscere persone diversissime tra loro, chi anziano, chi sposato, chi vedovo con figli, chi giovane e solo e chi ammalato, lasciato disteso in un materasso sotto il sole (la temperatura nei giorni di mia permanenza ha oscillato fra i trenta e i trentacinque gradi, senza vento).

Dopo l’ora del pranzo ci ricongiungiamo agli altri volontari ed insieme organizziamo la distribuzione del vitto; martedì e mercoledì pomeriggio, durante la cena, vengo destinata all’accoglienza dei migranti ed avrò così il piacere di salutarli uno per uno guardandoli in viso.

È bello incontrare nuovamente i bimbi che al mattino frequentano le attività scolastiche; nessuno di loro manca di salutarmi con un bel sorriso.

Mercoledì 25 agosto: voglia di scuola

Alle 7.30 alcuni bimbi si presentano già pronti dinanzi al cancello d’ingresso della scuola, sebbene l’inizio delle loro attività sia previsto per le 9.30 ed il pulmino neppure sia passato a raccoglierli: ognuno è arrivato da solo, alla spicciolata, con la propri cartella, davanti alle nostre tende dell’amicizia per essere subito pronto all’avvio delle attività. Sorrido al solo pensiero: non credo di avere mai anticipato l’orario di ingresso a scuola, neppure alle elementari, ed escludo anche di avere mai declinato un passaggio in pulmino per percorrere il tragitto fino a scuola a piedi sotto il sole.

Quella mattina, assieme ad altri colleghi, partecipo alla scuola di inglese che accoglie circa 40 persone, fra adulti, giovani e adolescenti, desiderosi di migliorare la conoscenza o imparare i primi rudimenti di inglese.

Sono destinata all’aiuto ai beginners ed è così che insieme ad una collega ceca mi ritrovo ad insegnare l’alfabeto latino ad un signore di almeno sessant’anni che scrive e riscrive ogni lettera sul proprio quaderno, la associa ad una parola chiave e annota a fianco la traduzione in farsi (arabo) così da non scordarne il significato; infinite sono le volte che mi richiama al suo banco per ripetere l’esatta pronuncia dei vocaboli e ogni volta, nello sbagliare lo spelling, sorride.

Affianco anche una giovinetta afghana di tredici anni che, accompagnata da tre amichette, si siede per la prima volta al banco di una scuola; attraverso il dialogo con le conoscenti comprendiamo che la ragazzina è analfabeta, mai andata a scuola, incapace di leggere e di scrivere.

Anche al termine della English school viene offerto il pranzo, quindi tutto viene riassettato e riordinato e ci si ricongiunge ai compagni.

Giovedì 26 agosto: goodbye human rights graveyard

Per me è già l’ultimo giorno. Venerdì dovrò infatti dedicarlo totalmente al viaggio. Partecipo nuovamente alla scuola per i bambini ed alla mensa.

La mattina collaboro alle attività di un gruppo di bimbi di varie età, sempre afghani. Insieme ci divertiamo a disegnare e ritagliare maschere colorate a forma di animale, da mettere sul viso, che i piccoli decidono di realizzare anche per i propri amici per darle loro una volta rientrati al campo. Quindi si accende un po’ di musica, si balla e si gioca tutti assieme.

Nel pomeriggio è di nuovo allestimento del ristorante e distribuzione del vitto; ogni giornata così si ripete operosa.

Lascio per l’ultima volta le tende a fianco del campo alle 21. E’ buio e c’è vento, penso che quello che sto vivendo è l’ultimo momento in cui ho concretamente modo di partecipare al dolore di quelle persone. Nonostante la stanchezza per le giornate vissute così intensamente, sento che non vorrei andarmene, perché mi sembra di lasciare qualcosa in sospeso. Mi domando quando potrò tornare, ma ancora di più mi interrogo su quando finirà quel confinamento di diritti, “human rights graveyard“, come bene descritto da un writer sulle mura di cinta del vecchio campo di Moria.

Il ritorno e una domanda

L’esperienza è ormai conclusa, sono tornata a casa, ho ritrovato i miei affetti e ho ripreso anche il servizio in ufficio. E’ difficile dare forma e nome a ciò che provo, al di fuori di una grande tristezza. Senza tregua mi martella costante una domanda “perché noi sì e loro no?“.

È trascorso qualche giorno e ancora non ho trovato una risposta.

Fonte: Giustizia Insieme

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