La rete internazionale dei freelance a fianco delle giornaliste e dei giornalisti afghani
Solo due settimane fa avevo incontrato O.H. dopo dieci anni. In Calabria, a una manifestazione che desidera dare voce alla società civile dei 20 Paesi più impoveriti del mondo, chiamata #Last20.
Lei, afghana, giornalista e attivista, era stata mia allieva di giornalismo insieme a una classe di altre 15 persone, tra donne e uomini ad Herat, nel 2010. L’anno dopo e per due anni successivi questo gruppo di giovani talenti viaggiò da e per l’Italia con un programma della cooperazione italiana in collaborazione con l’università di Herat e l’università Cattolica di Milano e questi studenti in giornalismo trascorsero un paio di mesi tra Roma e Milano, ospiti di redazioni televisive e di carta stampata (Rainews24, Corriere della Sera, Avvenire) e della redazione del Master in Giornalismo dell’Università Cattolica a Milano.
O. era la più timida, la più riservata, la apparentemente meno curata fisicamente.
Bellissima e orgogliosa, non sapeva fare grande marketing di se stessa ma ogni volta che si sedeva al desk, produceva approfondimenti di ottima qualità sulla sua realtà locale, e le sue foto erano informative ma malinconiche e struggenti, allo stesso tempo. Non c’erano dubbi che O. fosse una ottima professionista, con una marcia in più rispetto alle altre, ma meno appariscente.
Negli anni successivi, quelli della permanenza in Afghanistan da giornalista fatta, la sua consapevolezza e il suo desiderio per una società diversa in cui le donne potessero avere un ruolo pubblico è aumentata esponenzialmente: si è impegnata come reporter nella Women News Agency di Herat, e poi nella radio locale.
La bellezza di O. è che non ha mai desiderato essere diversa, non essere afghana: ha sempre camminato nel solco della tradizione della sua famiglia e della sua comunità, ma con una spinta forte al potenziamento del suo ruolo pubblico. Si è sposata con un giovane collega della radio, ha avuto una bellissima bambina e non aveva alcuna intenzione di lasciare il Paese finché, a causa dell’attività pubblica della figlia, i Taleban non hanno deciso di puntare al padre di O. L’uomo ha subìto un attentato da parte della milizia talebana: è rimasto vivo ma ha perso una gamba.
E le minacce per O. si sono fatte sempre più pressanti e concrete. Ricordo, circa cinque anni fa, i suoi frequenti messaggi, la richiesta di consigli, la sua – giusta – indecisione: vado via per salvarmi la pelle e poi salvarla a mio marito e a mia figlia o resto, in attesa del mio destino? Dopo essere incappata nelle maglie di truffatori on line, e avere trascorso mille notti insonni, O., è riuscita ad arrivare in Europa.
Tramite una lettera di presentazione, siamo riusciti a riallocarla per vie legali con l’aiuto del CPJ (Committee to protect journalists) e il suo ingresso è avvenuto in Scandinavia.
Da lì, è riuscita a muoversi verso la Germania dove si trovano altri migranti afghani della sua famiglia estesa ma gli anni di attesa del permesso di soggiorno sono stati durissimi.
Durissimo è stato soprattutto per lei il distacco dal marito e dalla figlia, ed è estremamente doloroso constatare che il ricongiungimento familiare in Europa somiglia più a una chimera che a una possibilità. A causa degli eventi di questi giorni, per il marito e per la figlia di O. si aprono grandi punti interrogativi sulla loro sicurezza che, forse, solo un’altra lettera di presentazione potrebbe riuscire a risolvere.
Ho raccontato in breve questa storia che mi riguarda da vicino e che è assai simile a quelle che centinaia di giornalisti internazionali che abbiamo coperto l’Afghanistan negli anni scorsi o più recentemente conosciamo, per rendere visibile e concreto il perché dell’urgente richiesta di aiuto da parte di migliaia di persone, soprattutto giovani, e non solo donne, che ci è arrivata in queste ore.
Per questo motivo, da quattro giorni, in molti ci siamo spesi per fornire lettere di presentazione ai colleghi che ne hanno fatto richiesta e che hanno lavorato con noi o che sono freelance associati all’organizzazione internazionale di cui sono rappresentante eletto, il Frontline Freelance Register.
In difesa e aiuto nei confronti dei giornalisti, delle giornaliste freelance afghani, e anche dei nostri fixer locali, sia per coloro che fanno parte del nostro network, che per coloro che ne sono fuori, abbiamo deciso di amplificare l’iniziativa del CPJ (Committee to protect journalists) e della CFWIJ (Coalition for Women in Journalism) che offre a chi ne fa richiesta un passaggio sicuro, preferibilmente verso il Canada.
Infine, stiamo attingendo al nostro speciale fondo di assistenza per i fixer locali che iniziano ad avere gravi problemi di sussistenza economica. L’aspetto più interessante di questa iniziativa è che chi ne farà richiesta potrà chiedere protezione, ricollocamento e trasferimento sicuro anche per i propri familiari.
Purtroppo le politiche europee sulla migrazione puntano a salvaguardare l’individuo ma non si pensa mai quanto sia importante e vitale, come la storia di O. dimostra, il rapporto con i familiari più stretti, specie per le donne già madri. In questo, il Canada ha fatto un enorme passo in avanti e si spiega così anche la quantità di richieste che sta aumentando di giorno in giorno. Ora i talebani promettono un Emirato light.
Staremo a vedere se si tratterà di un make up benfatto e se, in questa scelta strategica, non toccherà ancora alle donne – soprattutto delle province periferiche e rurali – essere le prime vittime dei nuovi governanti.
Per questo le richieste continuano ad arrivare e noi continuiamo ad esaudirle senza fermarci.
Fonte: Premio Roberto Morrione
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