La giustizia per Draghi? Una catena di montaggio
Ammesso che sia consentito – almeno ogni tanto – scherzare non solo coi fanti ma anche coi santi, provo a dire che Mario Draghi e Marta Cartabia rischiano di sembrare una specie di… appropriazione indebita del mito di Creso. Nel senso che a forza di essere incensati e santificati talora anche “a prescindere”, molti possono essere indotti a pensare che ogni loro intervento sia oro, cioè risolutivo, sempre “a prescindere”. Anche quando i risultati siano soltanto ipotetici.
È quel che per certi profili sta succedendo con la riforma della Giustizia. La riforma Draghi-Cartabia è ancora un cantiere aperto e la strada per tradurla in cifra operativa è lunghissima. Al momento, quindi, si possono formulare soltanto valutazioni di massima. Ma per qualche ottimista tutto è già decisamente cambiato e sicuramente in meglio. Tralasciando gli atti di fede, va detto che la Draghi-Cartabia si propone gli stessi obiettivi deflattivi di qualunque altro progetto di riforma: ridurre il carico giudiziario; ridurre il numero dei dibattimenti ampliando l’accesso alle procedure speciali, tipo patteggiamento; ridurre le impugnazioni. Per quanto è dato sapere, a cantiere – ripeto – ancora aperto, il percorso deflattivo non è incisivo come ci si aspetterebbe, ma talora piuttosto cauto e incerto. Al punto che alcune proposte, assai interessanti e innovative, della Commissione di studio istituita ad hoc proprio dalla ministra Cartabia (presidente Giorgio Lattanzi) sono state rifiutate.
In ogni caso, c’è una quantità massiccia di fascicoli che letteralmente soffocano gli uffici giudiziari e che sarebbe utile depenalizzare. Se gli omessi versamenti Iva, ad esempio, fossero trasformati in illeciti amministrativi di competenza dell’Agenzia delle Entrate, lo sgravio del settore penale sarebbe automaticamente importante. Per non parlare di quella sorta di Araba fenice che è ormai diventato – a forza di parlarne senza mai nulla concludere – il divieto di reformatio in peius, per cui se andando in Appello o in Cassazione il condannato non rischia nulla, neppure un euro o un giorno in più, ecco che tutti inesorabilmente ricorrono sempre, sperando che le cose possano “aggiustarsi” col trascorrere del tempo: ma così il sistema si ingolfa allungando i tempi.
I processi alle intenzioni sono di pessimo gusto, ma può affiorare il dubbio che gira e rigira torni di moda la tecnica, a lungo praticata nel nostro Paese, della “inefficienza efficiente”: una giustizia che non funzionando è funzionale alla tutela di certi interessi che il controllo di legalità lo gradiscono come il fumo negli occhi. Comunque sia, c’è la non allegra prospettiva di disperdere le energie disponibili, proprio oggi che il Recovery fund prevede investimenti sui quali prima la riforma Bonafede e ora la riforma Cartabia possono fare affidamento.
Non convincono, poi, le scelte operate in tema di prescrizione con la riforma Cartabia. Bonafede aveva avuto il coraggio e il merito di allineare il nostro Paese agli altri, stabilendo per la prescrizione uno stop definitivo (non più semplici sospensioni) con la sentenza di primo grado. Un robusto argine ai tentativi di allungare il processo all’infinito finché la prescrizione non lo annulli. Questa scelta di buon senso ha scatenato reazioni furibonde incentrate sull’accusa di aver creato un monstrum orrendo relegando i processi in una sorta di limbo senza fine.
Ipotesi basata sul presupposto (assurdo) che dopo la sentenza di primo grado i palazzi di giustizia cessassero del tutto di funzionare! Sia come sia, la riforma Cartabia ha ideato un vero “ibrido”: da un lato conferma il blocco della prescrizione voluto da Bonafede, ma nello stesso tempo lo riapre, stabilendo che se entro un certo termine non arriva la sentenza d’appello e poi di cassazione tutto va in fumo come con la prescrizione, che però – oplà – diventa improcedibilità.
Dal (supposto) limbo perpetuo, si passa alla mannaia che tutto cancella, lasciando i colpevoli impuniti e gli innocenti senza riconoscimento di tale status, mentre alle vittime sarà comunicato che è stato… uno scherzo. E ciò per un gran numero di processi: per fortuna non quelli per fatti di mafia e simili, grazie a un aggiustamento in extremis che ha accolto l’allarme (prima ignorato se non irriso) di magistrati come il procuratore nazionale Cafiero de Raho.
In sostanza, un “ibrido” che nasce dalla singolare concezione che i tempi del processo si possano stabilire con regio decreto, come se la giustizia fosse una catena di montaggio per produrre bulloni… Perpetuando per di più la deleteria spinta che da sempre affligge il nostro sistema: tirarla per le lunghe più che si può.
Fonte: Il Fatto Quotidiano, 31/07/2021
Trackback dal tuo sito.