Giustizia, i nodi da sciogliere
Caro direttore, nel Consiglio dei ministri del 22 luglio si è discussa la riforma della giustizia (in aula il 30 luglio).
Si annunzia il voto di fiducia, ma si teme che qualcosa non funzioni, per cui si apre a miglioramenti di carattere tecnico; sul nuovo testo si chiederà una nuova fiducia. Significa ammettere che nel progetto di riforma vi sono delle falle; e che sono seri gli allarmi, prima snobbati, sui tanti processi che possono andare in fumo, anche importanti, anche di mafia.
Il vero nodo da sciogliere è la prescrizione, che forse ha innescato (Giovanni Bianconi, Corriere del 23 luglio) una lotta politica che prescinde dal merito. Ipotesi convincente, altrimenti non avrebbero senso le contorsioni con cui si chiede la fiducia per un testo ancora da correggere in vista di una nuova fiducia. Tanto più che il Governo non propone fin da subito i miglioramenti che ritiene utili.
Del resto, che si tratti di una questione più simbolica che reale lo prova il fatto che in realtà non c’è nessuna fretta di cancellare la legge Bonafede del 1° gennaio 2020, casus belli e obiettivo fra i principali della riforma Cartabia. Lo ammette con sincero pragmatismo la relazione Lattanzi (presidente della Commissione istituita dalla ministra), là dove afferma che «dal punto di vista tecnico non vi sono ragioni che rendono urgente» rivedere la Bonafede, posto che i suoi effetti «si produrranno a partire dal 2025 per le contravvenzioni e dal 2027 per i delitti». E per favore non si dica che lo vuole l’Europa, perché l’erogazione dei fondi (che servono come l’ossigeno ai malati di Covid) è subordinata allo sveltimento del processo al netto della disciplina della prescrizione, per altro promossa dal Greco (Gruppo europeo contro la corruzione) nella versione tanto vituperata dai «garantisti» nostrani. Attenzione poi agli effetti controproducenti, nel senso che se si appiattisce sulla prescrizione il dibattito generale sulla giustizia, ecco il rischio di offuscare quel che di buono c’è nella riforma Cartabia, comunicando soltanto sensazioni di sfacelo o di crollo.
A rischio di annoiare, ritorniamo quindi al merito del problema. La riforma Bonafede ha allineato il nostro sistema a quello degli altri Paesi civili, introducendo un blocco definitivo della prescrizione con la sentenza di primo grado dove prima c’erano solo sospensioni temporanee. L’obiettivo era anche cancellare uno scempio costituzionale. Fulvio Aurora, segretario della Aiea (Associazione italiana esposti amianto, settore in cui la prescrizione cancella migliaia di morti) osserva che si parla di tempi della giustizia ma non abbastanza del fatto che «i poveracci spesso vengono processati e condannati velocemente, mentre chi può pagarsi buoni avvocati e consulenti può contare spesso sulla prescrizione dei processi». In altre parole, coesistono due processi distinti a seconda del censo e dello status sociale degli indagati. Una discriminazione ingiusta che non indigna i garantisti «à la carte». Favorita proprio dalla prescrizione che non si interrompe mai e perciò spinge ad «allungare il brodo» finché il decorso del tempo non si sostituisce al giudizio.
La riforma Bonafede ha provato ad eliminare questo sfregio al principio della legge eguale per tutti, attirandosi però una caterva di accuse catastrofiste, sintetizzabili nella tesi che il blocco della prescrizione creerebbe l’inaccettabile nuova categoria dell’imputato a vita. Un’ipotesi tutta da verificare e quanto meno esagerata, perché si basa su un presupposto assurdo, e cioè che dopo la sentenza di primo grado i palazzi di giustizia cessino del tutto di funzionare!
Sta di fatto che la riforma Cartabia, volendo innovare, conferma il blocco della prescrizione con la sentenza di primo grado, per poi pentirsene e cancellarlo: se l’appello non si conclude entro due anni, tutto il processo va in fumo come avveniva con la prescrizione, che però adesso (et voilà) si chiama «improcedibilità». Con varchi offerti all’impunità dei colpevoli, mentre l’innocente può perdere ogni opportunità di essere riconosciuto tale e alle vittime non resta che sentirsi dire «abbiamo scherzato». Un salto nel buio rilevato da autorevoli giuristi, di fatto ufficialmente ammesso dal Governo nel momento in cui si preconizzano non si sa quali aggiustamenti. Mentre risulta evidente che i processi non si velocizzano per decreto, perché le sentenze non sono bulloni da produrre a cottimo.
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