Le verità accertate sulle stragi di Capaci e di via Mariano D’Amelio
L’incipit
Quasi come nelle vite parallele di Plutarco Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, come magistrati, hanno ricostruito e fatto emergere la storia di cosa nostra, la sua struttura gerarchica e verticistica, le sue regole di funzionamento e, dunque, è lì il punto alfa del ragionamento.
I due sono stati destinatari di numerosi progetti di attentato. Il più consistente per il grado di sviluppo è certamente quello che si è concretizzato nel giugno del 1989, tre anni prima rispetto all’attentato di Capaci, ritenuto idoneo a integrare, sul piano giuridico, il reato di strage, fortunatamente non riuscito.
Verso le 11 del mattino del 9 luglio 1996 mi trovavo nel mio ufficio di Caltanissetta e ricevetti una telefonata dell’avvocato Alessandro Bonsignore, con la quale mi comunicò che il suo assistito Giovan Battista Ferrante, uomo d’onore di San Lorenzo, voleva urgentemente essere sentito da me, ma che poi non avrebbe più potuto curare la sua difesa. Nel pomeriggio mi recai a Palermo e iniziai l’interrogatorio.
Ferrante ammise la sua partecipazione alla strage di Capaci, manifestando il proposito di dissociarsi da cosa nostra. Pochi giorni dopo iniziò a collaborare a pieno titolo e, il 15 luglio, aprì uno squarcio sulla verità di uno dei più misteriosi e inquietanti episodi stragisti, da cui tutto partì: il fallito attentato all’Addaura, a Mondello, che avrebbe dovuto essere eseguito il 20 giugno 1989, ai danni del giudice Giovanni Falcone e dei componenti della delegazione elvetica (il giudice istruttore Claudio Lehmann e il pubblico ministero sottocenerino Carla Del Ponte; il commissario di polizia Clemente Gioia) in quei giorni presenti a Palermo per il compimento di una rogatoria.
Ferrante mi raccontò che tre giorni prima Antonino Madonia aveva richiesto a Salvatore Biondino di procurargli l’esplosivo e che quest’ultimo, avuta l’autorizzazione da Salvatore Riina, si era attivato per recuperarlo, chiedendo il suo aiuto; prelevarono dal deposito clandestino, ubicato in un terreno di contrada Malatacca, alla periferia di Palermo, i candelotti rivestiti di carta oleata di colore marrone del tipo Brixia, riconosciuti dal collaborante in una foto che avevo mostrato in aula durante un’udienza del processo di Capaci e che ritraeva l’esplosivo rinvenuto il 21 giugno 1989 nella casetta metallica inserita nella borsa di plastica riposta sulla piattaforma in calcestruzzo antistante alla villa abitata nel periodo estivo da Giovanni Falcone.
Raccontò di essere certo che «l’artefice di tutto» fosse stato Antonino Madonia. Successivamente, Francesco Onorato confessò il proprio coinvolgimento nell’attentato e consentì con le sue dichiarazioni di ampliare le conoscenze sulle modalità organizzative ed esecutive, riferendo di una riunione preparatoria tenutasi presso l’abitazione di Mariano Tullio Troia, delle attività di sopralluogo svolte nella zona teatro dell’attentato e che era stato Angelo Galatolo a collocare «la borsa» contenente l’ordigno.
Gli esiti delle indagini eseguite, l’apporto di altri collaboratori di giustizia (fra i quali, Giovanni Brusca e, in seguito durante il giudizio d’appello, Antonino Giuffré e Baldassare Ruvolo) hanno consentito di ottenere importanti e granitiche verità, riconosciute da un duplice verdetto della Corte di Cassazione del 6 maggio 2004 e del 26 marzo 2007, che hanno individuato: Riina, quale mandante; Biondino, Madonia, Onorato, Vincenzo e Angelo Galatolo, quali esecutori del delitto di strage; Ferrante quale responsabile della detenzione e del porto dell’esplosivo.
Una verità che è stata corroborata, a seguito di una successiva indagine, dal rinvenimento dell’impronta del DNA di Angelo Galatolo sulla maglietta rinvenuta a ridosso dell’ordigno e che ha resistito ai tentativi di depistaggio dell’artificiere Francesco Tumino e derivanti dalle dichiarazioni del mafioso dell’Acquasanta Angelo Fontana, che si è accusato falsamente di aver partecipato all’agguato.
L’attentato è risultato diretto a uccidere, l’ordigno era nelle condizioni di esplodere e aveva un raggio di letalità pari a circa 60 metri. Fu preceduto da una raffinata intossicazione dell’informazione finalizzata al discredito e all’umiliazione di Giovanni Falcone, con la falsa accusa, contenuta in numerose lettere anonime, di aver impiegato il collaboratore di giustizia Salvatore Contorno per catturare latitanti e per eliminare appartenenti al gruppo dei “corleonesi” e con la diffusione della falsa notizia di un incontro a Palermo di Tommaso Buscetta con il barone Antonino D’Onufrio. Un’attività preparatoria capace di giustificare dinanzi all’opinione pubblica, l’uccisione del magistrato, di delegittimare i collaboratori di giustizia, che costituivano gli elementi probatori fondamentali del processo “maxi uno” – istruito dallo stesso Falcone, vero e proprio elemento propulsivo del pool guidato da Antonino Caponnetto – di scardinare il sistema antimafia con le sue proiezioni internazionali. Falcone doveva essere ucciso per motivi di vendetta, ma non solo [1].
La vicenda delittuosa si inserì in un particolare contesto storico, quello in cui la versione siciliana della “Prima Repubblica”, fondata su frequenti e taciti accordi tra mafiosi ed esponenti di partiti politici, basati su una sostanziale non belligeranza in funzione anticomunista, incominciò a mostrare i suoi primi cedimenti determinati sia dall’azione di magistrati indipendenti, come Falcone e Borsellino (tanto osteggiati in vita quanto osannati da morti), sia dalla progressiva caduta della contrapposizione internazionale Est-Ovest.
Il 23 maggio 1992 sembrò che nell’apocalisse della c. d. strage di Capaci [2] dovesse per sempre sprofondare la speranza degli uomini onesti. Le immagini desolanti dell’enorme cratere, di quella Croma scagliata ad oltre 60 mt. di distanza dall’orrenda deflagrazione, con all’interno i cadaveri straziati di Rocco Di Cillo, di Vito Schifani e di Antonio Montinaro, quella folla enorme e scomposta di persone che si riversavano nell’area aperta a tutti per andare a rendere omaggio alle vittime o semplicemente a curiosare, quelle persone che vendevano panini e merce varie in prossimità del luogo teatro del crimine, il rapido ripristino della viabilità della carreggiata, ove era avvenuta l’esplosione, in vista dell’imminente arrivo della regina d’Inghilterra, che indusse a fare tutto in fretta, mi apparvero come lo specchio su cui si rifletteva l’immagine di uno Stato assente e distratto, che per tanti anni aveva tollerato o, forse, favorito, il dilagare del crimine organizzato.
Il 19 luglio dello stesso anno si verificava, nella medesima città, dopo appena 57 giorni dall’assassinio di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta [3], la strage di via Mariano d’Amelio (costata la vita a Paolo Borsellino e a 5 uomini della scorta [4]), un evento senza precedenti nel passato criminale di cosa nostra che consentiva di superare le difficoltà connesse alle contrapposizioni politiche che fino al quel momento avevano accompagnato il difficoltoso cammino parlamentare del D.L. dell’8 giugno 1992, con il quale venivano varate misure repressive di contrasto alla criminalità mafiosa.
E quando fui raggiunto da quella notizia pensai di non vivere in un Paese democratico. Persone a me care tentarono di dissuadermi dal raggiungere la sede di Caltanissetta e dall’iniziare la mia attività professionale di magistrato in quella città. L’orgoglio ferito di cittadino mi indusse a recarmi, comunque, in Sicilia e nella provincia nissena [5], dove le tenebre della morte avevano pervaso ogni angolo, per prestare il mio contributo al ripristino della legalità, così severamente vituperata. Nello scoramento, tra la rabbia, il terrore e lo sconcerto, pochi immaginarono di poter fare giustizia nel volgere del tempo, in un Paese dove le stragi rimanevano quasi sempre un mistero.
Sono trascorsi 29 anni da quegli eccidi e ritengo sia importante sottolineare i risultati raggiunti e i tratti salienti delle risultanze processuali, che consentono di dimostrare che lo Stato, dopo le aggressioni stragiste, ha saputo reagire e c’è, e di accrescere il senso di fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni e della magistratura in particolare. Tali risultati – ottenuti soprattutto sulla base del fondamentale ausilio dei collaboratori di giustizia – hanno consentito di individuare i responsabili appartenenti a cosa nostra, di processarli nel pieno rispetto delle garanzie, di condannarli con sentenze definitive, di catturali (tutti tranne Matteo Messina Denaro), di sequestrare e confiscare i loro beni e i depositi di armi ed esplosivo di cui avevano la disponibilità.
Cosa nostra è stata piegata e scompaginata, riducendone fortemente la potenza, soprattutto alla fine degli anni Novanta, come un gigante dai piedi d’argilla trafitto. L’organizzazione è stata resa certamente meno pericolosa di quanto non lo fosse stata dal 1989 al 1994, privandola del terrificante potere criminale militare, impiegato per fini di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico. Rimangono, tuttavia, punti oscuri sullo stragismo e cosa nostra non può certo dirsi sconfitta. Il cammino è ancora lungo.
La strage di Capaci
«Gioè mi dice via, via, cioè me lo dice 3 volte, alla terza volta io aziono il telecomando». Così il 28 marzo 1997 Giovanni Brusca mi rispose nell’aula bunker di Caltanissetta durante il processo di primo grado per spiegare come aveva provocatolo scoppio poderoso che ha prodotto la strage di Capaci, azionando il telecomando, procurato dall’esperto artificiere Pietro Rampulla.
L’esito dell’analisi dei contatti telefonici intercorsi nella fascia oraria caratterizzata dall’attentato faceva emergere un colloquio alle ore 17,49 del 23 maggio 1992 della durata di 325 secondi, a ridosso dell’esplosione, avvenuta alle 17,56.48, come si è stabilito attraverso la rivelazione dell’istituto Nazionale di Geofisica della stazione di Monte Cammarata. Un dialogo intercorso tra l’utenza in uso a Gioacchino La Barbera, mentre stava seguendo, a bordo della Delta Integrale sulla strada parallela all’autostrada, il corteo di auto nel quale viaggiava Giovanni Falcone, e quella intestata a Mario Santo Di Matteo in uso in quel momento ad Antonino Gioè, presente a fianco di Giovanni Brusca sulla collinetta che domina il tratto di autostrada, negli istanti immediatamente antecedenti all’attivazione del telecomando.
L’input investigativo che ha consentito di ricostruire la fase preparatoria ed esecutiva dell’eccidio, verificatosi a ridosso dello svincolo autostradale di Capaci, è stato fornito da Giuseppe Marchese, nel settembre 1992, all’indomani dell’inizio della sua collaborazione. Ci disse di attenzionare Gioacchino La Barbera, Antonino Gioè e tale Santino Mezzanasca per giungere all’individuazione dei responsabili. La conseguente attività investigativa nei loro confronti fece comprendere che La Barbera e Gioè vivevano in clandestinità in un appartamento di via Ughetti, al civico n. 17, a Palermo e consentito di identificare Mezzanasca in Mario Santo di Matteo. Il riascolto, nel maggio del 1993, dei colloqui intercettati al suo interno consentì di comprendere che, dalle 0,40 alle 1,55 del 9 marzo 1992, La Barbera si rivolgeva a Gioè, dicendogli per indicare un dato luogo: «ti ricordi u carruzzerivicinu uni aspettai ddocu, ddocu a Capaci uni ci fici (o ci ficimu) l’attentatuni».
Su tali risultanze sono confluite prove pesanti come macigni – idonee a resistere ai tentativi di depistaggio del passato e del presente – in parte significativa costituite dalle confessioni severamente verificate di otto uomini d’onore partecipi al delitto. Mario Santo Di Matteo [6], Salvatore Cancemi [7], Gioacchino La Barbera [8] hanno iniziato a collaborare tra il 24 ottobre 1993 e il 2 dicembre 1993; Calogero Ganci [9], Giovanbattista Ferrante [10], Antonino Galliano [11] e Giovanni Brusca [12] tra il 7 giugno e il luglio del 1996, durante il primo processo di primo grado; Antonino Giuffrè [13] nel corso del 2002. Le loro dichiarazioni – unitamente all’apporto di altri collaboratori (fra i quali, Francesco Paolo Anzelmo, Francesco Di Carlo, Filippo Malvagna, Leonardo Messina, Vincenzo Sinacori, Francesco Geraci, Ciro Vara) – e i formidabili riscontri acquisiti hanno consentito di ricostruire dettagliatamente la fase preparatoria, esecutiva e ideativa dell’eccidio (che ha visto il coinvolgimento degli appartenenti ai massimi organi di vertice di cosa nostra: la commissione provinciale e regionale) e di giungere alla condanna con sentenza definitiva – a seguito di un doppio verdetto della Corte di Cassazione del 30-31 maggio 2002 [14] e del 18 settembre 2008 [15] – di 37 mafiosi di rango (tre ulteriori imputati, fra i quali Antonino Gioè, sono deceduti prima dell’intervento della sentenza di primo grado).
Come era stato ipotizzato sin dalle prime indagini, gli assassini si mantennero in contatto grazie a telefoni cellulari, che si è provato non essere stati clonati e che hanno permesso di radiografare tutte le loro chiamate. Sono state ricostruite dettagliatamente le attività pianificate e attuate di controllo degli spostamenti dell’auto in dotazione del dottor Falcone a Palermo, di ricerca del punto più adatto ove collocare la carica e del relativo idoneo punto di appostamento per il lancio del segnale di attivazione; le modalità di acquisizione dell’esplosivo, il confezionamento della carica e le modalità di collocazione della stessa nel cunicolo sottopassante l’autostrada; gli aspetti relativi al reperimento dei materiali (inclusi gli esplosivi necessari); le reiterate prove su strada svoltesi sul tratto di autostrada interessato dall’attentato e le relative finalità (provare in loco il radiocomando, stabilire l’anticipo di lancio del segnale dal luogo di appostamento, individuando il punto di passaggio del corteo da dove azionarlo [16], provare le comunicazioni tra i membri del commando); il peso e l’innescamento della carica, tramite l’inserimento nel bidone più grosso contenente circa 50 Kg dell’esplosivo farinoso del tipo tritolo, posto al centro della carica [17], tramite inserimento nello stesso di due detonatori elettrici affiancati.
E, ancora, la dinamica delle condotte tenute il giorno del delitto. Calogero Gangi, dalla macelleria di Palermo ove lavorava, chiamò il fratello Domenico e l’avvisò di aver visto sfrecciare l’auto usata da Falcone; Domenico Gangi mise in moto il meccanismo di comunicazione, allertando Giovanbattista Ferrante, appostato nella zona dell’aeroporto di Palermo, e i membri del gruppo militare che erano a Capaci, che la macchina in dotazione al magistrato aveva imboccato l’autostrada, per dirigersi verso l’aeroporto; La Barbera, che si trovava in una strada parallela all’autostrada, ricevette in presa diretta la notizia, sia da Ferrante, sia da Domenico Ganci, e la comunicò a Gioè e a Brusca, presenti sulla collinetta con Giovanni Battaglia; Gioè e Antonino Troia si recarono al cunicolo per posizionare e attivare la ricevente, mentre l’artificiere Rampulla quel giorno non era presente. A seguito della confessione di Gaspare Spatuzza (a far data dal 2008) e, poi, di Cosimo d’Amato ulteriori esponenti dell’organizzazione sono stati individuati e condannati per aver fornito, previa lavorazione, una parte dell’esplosivo impiegato: il tritolo proveniente da ordigni bellici.
Si è appurato che Falcone fu ucciso per tre ragioni. Il sentimento di vendetta che animava i vertici di cosa nostra per quanto aveva fatto a: Palermo quale giudice istruttore, che aveva contribuito soprattutto a istruire il maxiprocesso (che aveva condotto a condanne definitive e al riconoscimento per la prima volta dell’esistenza di cosa nostra e delle sue regole di funzionamento); Roma, quale Direttore generale degli Affari Penali, a far data dal febbraio 1991, per le attività espletate di promovimento legislativo e amministrative.
Vanno, fra le altre, ricordate le misure per lo scioglimento dei consigli comunali e provinciale e di organi di altri enti locali conseguenti a infiltrazioni mafiose; l’istituzione della DIA, della DNA, del fondo di sostegno per le vittime di richieste estorsive; le norme sull’ineleggibilità di coloro che avevano riportato condanne; le limitazioni dell’uso del contante e dei titoli al portatore; il dl 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, che prevedeva limiti alla possibilità per i condannati di delitti di criminalità mafiosa di usufruire della liberazione condizionale, l’introduzione dell’aggravante a effetto speciale per i reati di mafia e l’attenuante speciale per chi collabora con la giustizia, un regime speciale agevolativo per effettuare le intercettazioni; un provvedimento legislativo che impediva la scarcerazione degli imputati del maxiprocesso, per decorrenza dei termini di durata della custodia cautelare in carcere.
La prospettiva di carattere preventivo: la preoccupazione per l’attività che Falcone avrebbe potuto compiere, soprattutto nel settore della gestione illecita degli appalti, tanto più se fosse divenuto Procuratore Nazionale Antimafia. Le affermazioni di Falcone la «la mafia era entrata in borsa» avevano indotto a temere che Falcone avesse capito che dietro la quotazione in borsa del gruppo Ferruzzi vi fosse effettivamente cosa nostra.
La terza si coglie se la strage si colloca nel più ampio progetto terroristico eversivo, ideato nell’autunno del 1991, sintetizzato dalle parole di Salvatore Riina: «bisogna prima fare la guerra prima di fare la pace», riportate da Filippo Malvagna, che rappresentano un ragionamento politico.
A seguito del nefasto esito del maxiprocesso, derivante dalla sentenza della Corte di Cassazione del 30 gennaio 1992 e del conseguente insuccesso dei tentativi di condizionarne l’esito, cosa nostra ha colpito gli acerrimi nemici e i tradizionali referenti politico istituzionali. Con il ricatto a suon di bombe, attuato con otto stragi (due in Sicilia e sei nel continente [18]) e plurimi omicidi [19], i vertici del sodalizio hanno voluto fare una guerra allo Stato per piegarlo e indurlo a trattare, in un periodo di sfaldamento dei partiti di governo, falcidiati dalle indagini su Tangentopoli. E ciò al fine di creare un assetto di potere ritenuto funzionale alle proprie aspettative, condizionando la politica legislativa del governo e del parlamento e riannodando il rapporto politico mafioso sfaldato con altri referenti.
In tale quadro, la strage di Capaci è stata eseguita in una fase di instabilità e di fragilità della democrazia, caratterizzata da un vero e proprio «ingorgo istituzionale». Il 2 febbraio 1992, infatti, il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga scioglieva le Camere, il 5-6 aprile 1992 venivano svolte le consultazioni per il rinnovo delle camere e il 25 aprile 1992 il Presidente Cossiga si dimetteva.
L’eccidio determinò l’accelerazione e l’individuazione del nuovo Presidente della Repubblica, sull’onda emotiva dello sdegno, a valle dell’«ingorgo istituzionale». Al riguardo, Giovanni Brusca ha riferito che, mentre era in corso la fase preparatoria della strage di Capaci, Riina gli aveva esternato l’auspicio che l’attentato a Falcone venisse eseguito prima della nomina del Presidente della Repubblica, perché in tal modo si sarebbe impedita l’elezione dell’on.Andreotti a quella carica. È un dato di fatto che, quando la mano omicida di Brusca faceva brillare la carica, da dodici giorni regnava forte l’incertezza, da parte delle forze politiche, nell’individuare un candidato alla Presidenza della Repubblica sul quale far convergere i consensi, anche se sullo sfondo rimaneva sempre vitale l’immagine di una candidatura forte come quella dell’On. Giulio Andreotti. Il Presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro, due giorni dopo, al sedicesimo scrutinio, veniva eletto Presidente della repubblica con 672 voti. Veniva così superato “l’impasse” prodotto dal fallimento delle candidature Forlani, Conso e Vassalli.
In altri termini, se la situazione del 16 marzo 1978 aveva spianato la strada alla fiducia al quarto governo Andreotti, la strage, per converso, estrometteva quest’ultimo dalla poltrona di presidente della Repubblica, superando, per dirla con Brusca, i «giochini» intrapresi a seguito delle dimissioni del 25 aprile dell’On. Cossiga.
Ma la strage comportò, anche, il varo di norme di rigore per il contrasto alla criminalità organizzata, come il d. l. dell’8 giugno 1992, già ricordato, che, nel prevedere modifiche al codice di procedura penale, prevedeva l’estensione del carcere duro di cui all’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario, convertito in legge il 7 agosto, a seguito della strage di via Mariano d’Amelio.
La strage di via Mariano D’Amelio
Uomini d’onore appartenenti alle famiglie mafiose di San Lorenzo, di Porta Nuova, di Brancaccio, di Corso dei Mille e della Noce sono stati coinvolti nell’esecuzione della strage di via Mariano d’Amelio, che in una porzione significativa è stata ricostruita ancora una volta con il fondamentale ausilio di più collaboratori di giustizia, fra i quali, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante, Giovanni Brusca, Gaspare Spatuzza [20] e Fabio Tranchina [21], che hanno consentito di smascherare il diabolico depistaggio attuato da un soggetto non appartenente a cosa nostra Vincenzo Scarantino [22], che ha portato alla condanna anche di sette mafiosi innocenti (poi, assolti a seguito di giudizio di revisione).
La dinamica esecutiva è stata ricostruita nei seguenti termini.
Una settimana prima della strage, Fabio Tranchina compiva due appostamenti in via Mariano d’Amelio insieme a Giuseppe Graviano, il quale gli chiese, in un primo momento, anche di procurargli un appartamento nelle vicinanze, per poi dirgli che aveva deciso di piazzarsi nel giardino dietro un muretto in fondo a via d’Amelio per azionare il telecomando che provocò l’esplosione.
Su incarico di Giuseppe Graviano (veicolato tramite Cristofaro Cannella), Gaspare Spatuzza e Vittorio Tutino rubarono una Fiat 126, tra la fine della prima settimana di luglio e la sera del giorno nove. La proprietaria dell’auto, Pietra Valenti sporse denuncia di furto il 10 luglio 1992. Dopo le iniziali difficoltà, Tutino riuscì a rompere il bloccasterzo con un «tenaglione» e l’auto venne portata via a spinta. La ricoverarono nel magazzino di via Gaspare Ciprì, n. 19, a Palermo. Dopo il furto, Spatuzza incontrò Giuseppe Graviano a Falsomiele nella casa di Cesare Lupo (cognato di Fabio Tranchina) e lo informò di alcuni problemi che l’autovettura presentava la frizione e ai freni. Graviano gli raccomandò di ripristinarne l’efficienza e di togliere dalla macchina ogni elemento che potesse consentire di risalire al proprietario. E così fece. Si era, perciò, rivolto a un meccanico di sua conoscenza, che lavorava presso l’officina di Agostino Trombetta per farle riparare e per questo aveva pagato 100.000 lire.
Poi, Spatuzza la trasportò sabato 18 luglio 1992, mentre Cannella e Antonino Mangano lo precedevano alla guida di due auto per indicargli il percorso, nel garage di via Villasevaglios, ove Lorenzo Tinnirello, Francesco Tagliavia e altri membri del commando operativo la imbottirono di esplosivo: circa 90 chilogrammi di plastico Semtex-H di tipo militare e di produzione cecoslovacca (composto da pentrite, tritolo e T4) [23]. Tutino e Spatuzza recuperarono due batterie e un’antenna per alimentare e collegare i micidiali dispositivi destinati a far brillare la carica, nonché le targhe, che venivano consegnate a Giuseppe Graviano, da apporre alla 126 rubata per dissimularne la presenza sui luoghi della strage.
Su incarico di Giuseppe Graviano, Tranchina procurò il telecomando. Salvatore Biondo (classe 1955), l’omonimo Salvatore Biondo (classe 1956), Domenico e Stefano Ganci, Cristofaro Cannella e lo stesso collaboratore Ferrante hanno provato il funzionamento del telecomando e dei congegni elettrici che servirono per l’esplosione e segnalato telefonicamente, anche procedendo a pedinamenti, gli spostamenti del giudice Borsellino e della scorta fino a poco prima della strage (dato che ha trovato conferma nell’analisi dei tabulati telefonici delle utenze poste nella loro disponibilità).
Salvatore Biondino, in particolare, avvisò Ferrante perché la domenica 19 luglio si sarebbe dovuto colpire il dottor Borsellino e lo incaricò di segnalare lo spostamento del giudice dalla sua abitazione. Raffaele Gangi, il quale fornì un notevole contributo, informò Salvatore Cancemi che l’attentato sarebbe avvenuto quella domenica sotto casa della madre del giudice. Biondino aveva già riferito a Giovanni Brusca di «essere sotto lavoro» [24].
I risultati ottenuti hanno richiesto la celebrazione fondamentalmente di tre processi (c. d. via d’Amelio bis, ter [25] e quater), che hanno condotto al riconoscimento del coinvolgimento di cosa nostra anche in tale strage, con condanna definitiva dei componenti degli organi di vertice del sodalizio: la commissione provinciale di Palermo e la commissione regionale (già citate per la strage di Capaci), responsabili di aver ideato e deliberato l’attentato, e dei componenti del commando operativo. Decine di ergastoli sono stati irrogati nei loro confronti, con plurimi verdetti della Corte di Cassazione, fra i quali, quelli del 17-18 gennaio 2003 [26] e del 18 settembre 2008 [27].
Sono, al contempo, state individuate le ragioni di vendetta di un acerrimo nemico di cosa nostra, e preventive dell’uccisione del dottor Borsellino, derivanti dal pericolo per quanto stava facendo e avrebbe potuto effettuare, che possiedono una specificità rispetto al più ampio progetto criminale aperto in cui l’evento delittuoso si inserisce tanto da comportare un’accelerazione della strage e di stoppare l’attività preparatoria in corso volta a colpire un altro obiettivo (l’on. Calogero Mannino).
Consapevole di essere una vittima designata, Borsellino è risultato impegnato nei frenetici cinquantasette giorni nella gestione di plurimi collaboratori di giustizia: Leonardo Messina, il quale aveva iniziato a collaborare a seguito delle stragi di Capaci, spiegando, fra l’altro, come funzionava il meccanismo spartitorio degli affari pubblici tra cosa nostra, gli esponenti politici e gli imprenditori; Gioacchino Schembri, appartenente alla stidda di Palma di Montechiaro, che conosceva le dinamiche sottese all’assassinio del giudice Rosario Livatino; Gaspare Mutolo, che aveva iniziato a lanciare accuse nei confronti di appartenenti alle istituzioni e, in particolare, dei Servizi Segreti.
Aveva manifestato il proposito di individuare i responsabili della strage di Capaci e, nel corso di un’intervista a due giornalisti francesi, di essere a conoscenza di rapporti tra mafiosi ed esponenti del mondo imprenditoriale.
Era stato indicato pubblicamente come naturale successore di Falcone nella guida della Procura Nazionale Antimafia. Borsellino se fosse stato informato dei negoziati in corso tra i vertici del sodalizio ed esponenti delle istituzioni si sarebbe certamente opposto.
I punti rimasti oscuri nella ricostruzione della responsabilità ruotanti attorno alle due stragi
Rimangono, invero, spunti investigativi e interrogativi che impongono di continuare a indagare per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell’ideazione e nell’esecuzione dello stragismo dei primi anni Novanta.
E, segnatamente, con riferimento alla strage di Capaci rimangono aperti alcuni quesiti e permangono i seguenti aspetti non chiariti.
Come mai Paolo Bellini28 s’incontrò con l’esecutore della strage di Capaci Antonino Gioè e perché istillò il proposito di colpire la Torre di Pisa?
Le ragioni e le modalità della morte di Antonino Gioè il 29 luglio 1993, all’indomani degli attentati nelle città di Roma e Milano del 27-28 luglio 1993 sono rimaste non chiarite.
Perché e da chi sono stati manomessi alcuni supporti informatici di Giovanni Falcone. Sono stati, infatti, editati file dopo il giorno della strage, è stata cancellata la memoria palese dell’organizzatore elettronico databank Casio Sf-9.500 (reperto 101), non sono state rinvenute la scheda elettronica RAM Card 64 KB per l’espansione della memoria del citato organizzatore elettronico.
Non sono stati verificati gli incontri di Francesco Di Carlo con esponenti dei servizi segreti nel carcere di Full Sutton, portatori del proposito di eliminare Falcone, e la possibile interrelazione degli stessi con la strage. Colloqui nel corso dei quali Di Carlo indicava Gioè come soggetto idoneo allo scopo, che poi verrà coinvolto nell’eccidio.
Meritano una riflessione ulteriore la partecipazione dell’artificiere Pietro Rampulla tra i componenti della del commando operativo, soggetto legato a estremisti di destra come RosarioCattaffi, appartenente a ordine Nuovo; il rinvenimento del biglietto con l’annotazione «Guasto n. 2 portare assistenza settore 2. Gus, via Selci, n. 26, via Pacinotti» e di un numero di utenza cellulare in uso a un appartenente in uso a un funzionario del Sisde; il rinvenimento di un guanto in lattice, nell’area dell’attentato di Capaci (in realtà ricadente nel territorio del comune di Isola delle Femmine), con un’impronta genetica che potrebbe far riferimento a una donna. Si noti che Gioacchino La Barbera ha sottolineato l’uso da parte dei membri del commando di guanti di lattice da chirurgo nelle operazioni di carico della stessa tipologia di quelli rinvenuti nel corso del sopralluogo.
Quanto alla strage di via Mariano d’Amelio non sono state individuate compiutamente e con certezza le ragioni dell’accelerazione dell’eliminazione di Paolo Borsellino, eseguita, va rimarcato, a distanza di 57 giorni nella medesima città, a Palermo o, comunque, nelle immediate vicinanze, nella quale fu eseguita quella di Falcone, della moglie e dei tre agenti di scorta.
Occorre verificare se vi sia stata una finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti per tale strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato, nonché identificare la persona rimasta sconosciuta, indicata da Spatuzza, presente al momento della consegna della Fiat 126 nel garages di via Villasevaglios.
Non si conosce la provenienza dell’esplosivo utilizzato per imbottire la 126, chi azionò il telecomando che fece esplodere l’autobomba il 19 luglio 1992 e «non sono stati ancora raccolti elementi chiarificatori in grado di dipanare, in maniera definitiva, la matassa relativa alle modalità della sparizione dell’agenda rossa del magistrato (certamente non fu opera di cosa nostra)».
È rimasto enigmatico il contenuto dell’intercettazione del dialogo di Mario Santo Di Matteo con la moglie sugli infiltrati in via D’Amelio [29].
Vi è poi il dato, suscettibile di approfondimento, per cui i vertici di cosa nostra ricevettero, nel corso del 1992, un segnale istituzionale, consistito nell’avvio di una trattativa, che, nella loro prospettiva suonava come una conferma che la loro attività stragista fosse idonea ad aprire nuovi canali relazionali, capace di individuare nuovi referenti politico istituzionali [30].
Più in generale, non si è dimostrato con certezza il perché sia cessata il 23 gennaio 1994 la campagna stragista, dopo il fallito attentato allo stadio Olimpico.
A distanza di 29 anni dalle stragi di Capaci e di via Mariano d’Amelio (e a 32 dall’attentato dell’Addaura) se possiamo ritenere di avere accertato, con il pieno rispetto delle garanzie degli imputati condannati, una parte davvero significativa della verità attorno a quei delitti, non possiamo trascurare l’impegno a continuare nella ricerca della stessa, che rappresenta non solo un obbligo giuridico.
Si tratta, infatti, di un tributo che si deve al vivere democratico, alla memoria delle vittime, al dolore dei loro cari e dei sopravvissuti. È la coscienza critica e morale della società civile che impone questo dovere.
Senza verità completa non c’è giustizia. È importante non dimenticare mai ciò che è accaduto, come si sono accertate le responsabilità penali e mantenere un impegno costante nel contrasto, fino a quando continueranno a esistere cosa nostra e le altre strutture mafiose, per non essere costretti a rivivere quel tragico passato.
* Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Firenze
Fonte: Questione Giustizia
Note
[1] A distanza di trentadue anni, non c’è più tempo per la verità giudiziaria perché il reato di strage si è prescritto. Non sarà più possibile dare un volto a quelle menti raffinatissime che potrebbero avere avuto un interesse convergente nell’ideazione dell’attentato e agli ulteriori esecutori intravisti, e per sciogliere i nodi irrisolti che vi ruotano attorno.
[2] La strage è stata commessa in territorio di Isola delle Femmine.
[3] Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani.
[4] Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Eddie Walter Cusina.
[5] Durante la permanenza presso la Procura della Repubblica di Caltanissetta sono stato delegato alla trattazione delle indagini, delle udienze preliminari e dei dibattimenti dei procedimenti per le stragi dell’Addaura e di Capaci e, poi, applicato in appello per il per il processo di Capaci.
[6] Tratto in arresto il 4 giugno 1993 con l’accusa di associazione di tipo mafioso, Mario Santo Di Matteo iniziava a collaborare con la giustizia il 24 ottobre 1993, autoaccusandosi, proprio come primo episodio della partecipazione alla strage di Capaci. Era uomo d’onore della famiglia di Altofonte. Gli stessi appartenenti a cosa nostra hanno riconosciuto l’importanza del suo contributo ponendo in essere, nel quadro di una collaudata e più generale strategia di attacco nei confronti dei collaboratori di giustizia, una ignobile attività ricattatoria, consistente nel sequestro del di lui figlio undicenne Giuseppe, poi culminata, come noto, nel suo assassinio, e volta a indurlo a ritrattare le accuse lanciate. Il promotore e l’organizzatore di tale forma di micidiale pressione è stato Giovanni Brusca, unitamente a Giuseppe Graviano, e un ruolo nell’esecuzione del delittoè stato svolto, tra gli altri, da Leoluca Bagarella e Giuseppe Agrigento.
[7] Salvatore Cancemi, uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova, sostituto del capo Mandamento detenuto dell’omonimo mandamento, si è costituito spontaneamente presso la caserma Carini dei Carabinieri di Piazza Verdi. E ha iniziato la sua collaborazione il 1 novembre 1993.
[8] Gioacchino La Barbera – uomo d’onore della famiglia di Altofonte, è stato sottoposto a fermo di polizia giudiziaria il 23 marzo 1993 – assumeva atteggiamento di collaborazione, a far data dal 25 novembre 1993, dopo aver avuto un confronto con Mario Santo Di Matteo, a far data dal 25 novembre 1993. Il padre di La Barbera, Domenico, veniva assassinato nel giugno del 1994 (veniva indotto a impiccarsi così simulando un suicidio), da sicari inviati da Giovanni Brusca, in quanto non aveva fornito le informazioni richiestegli, inerenti al luogo ove si trovava il di lui figlio.
[9] Calogero Gangi – uomo d’onore della famiglia della Noce, figlio del capo dell’omonimo mandamento, Raffaele Gangi – iniziava a collaborare con la giustizia il 7 giugno 1996, allorché nel corso di un’udienza del processo di primo grado chiedeva di conferire con me, per il tramite del maresciallo Cimino dell’Arma dei Carabinieri e, segnatamente, nel corso dell’interrogatorio che iniziai al termine dell’udienza nel carcere di Caltanissetta. La sua collaborazione produsse un effetto di trascinamento di molte altre, fra le quali, quelle di Giovan Battista Ferrante, Antonino Galliano, Francesco Paolo Anzelmo e Giovanni Brusca, nonché contribuì all’apertura collaborativa di Salvatore Cancemi.
[10] Giovan Battista Ferrante, uomo d’onore di San Lorenzo, si dissociò il 9 luglio 1996 e, dopo qualche giorno, iniziò a collaborare con la giustizia.
[11] Antonino Galliano, cugino di Calogero Gangi, uomo d’onore riservato della famiglia della Noce, veniva tratto in arresto il 21 dicembre 1995, iniziava, innanzi a mea collaborare con la giustizia il 19 luglio 1996.
[12] Giovanni Brusca, uomo d’onore della famiglia di San Giuseppe Jato, sostituto del padre Bernardo nella direzione dell’omonimo mandamento, tratto in arresto il 20 maggio 1996, ha manifestato il suo proposito collaborativo il 27 luglio 1996. La sua è stata una collaborazione particolarmente tormentata, attraversata da un tentativo di depistaggio, dalla contestazione di più delitti di Calunnia e divenne tale solo a partire dal 1999.
[13] Antonino Giuffrè, uomo d’onore della famiglia di Caccamo e capo dell’omonimo mandamento, iniziava a collaborar con la giustizia nel 2002.
[14] La sentenza è stata emessa dalla V sezione della Corte di Cassazione, n. 718 R.G.N. 42847/01, al Massimario 18845/03, presieduta dal dottor Guido Ietti, giudice estensore Angelo Di popolo, la cui motivazione è stata depositata in cancelleria il 18 aprile 2003.
[15] La sentenza è stata emessa dalla prima sezione penale, presieduta dal dottor Edoardo Fazzioli, giudice estensore Grazia Corradini, n. 1157/08, 42990/08, la cui motivazione è stata depositata in cancelleria il 18 novembre 2008.
[16] Il relativo punto è stato marcato con il posizionamento di un elettrodomestico, individuato dopo l’attentato grazie a una fotografia scattata dall’alto.
[17] La carica venne suddivisa in 13 bidoni e fu costituita da circa 500 Kg di esplosivo.
[18] Sette stragi, che indussero il premier Carlo Azeglio Ciampi a dire di «aver temuto un colpo di Stato», eseguite nel territorio italiano nell’arco di 14 mesi, dal 23 maggio ’92 al 28 luglio ’93 (il riferimento è alle stragi di Capaci e di via Mariano d’Amelio; all’attentato a Maurizio Costanzo del 14 maggio 1993, due giorni dopo l’insediamento del governo Ciampi, in cui erano inseriti per la prima volta in Italia, esponenti del PDS, l’ex partito comunista; alla strage di via dei Georgofili del 27 maggio 1993; alle stragi eseguite nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993, allorché esplosero, quasi simultaneamente, tre autobombe: la prima a Milano, in via Palestro, che provocò cinque morti e una decina di feriti e distrusse il padiglione di arte contemporanea; la seconda, a Roma, danneggiò la basilica di San Giovanni in Laterano e il palazzo lateranense e provocò 14 feriti; la terza, ancora a Roma, procurò il ferimento di tre persone e gravi danni alla basilica di San Giorgio al Velabro).Una strage allo stadio Olimpico di Roma, programmata per il gennaio 23 gennaio 94, con lo scopo di eliminare, con un’autobomba, decine di carabinieri, in servizio di ordine pubblico, non verificatasi per un malfunzionamento del telecomando.
[19] Due omicidi: Salvo Lima il 12 marzo 1992 e Ignazio Salvo il 17 settembre 1992. Il progetto ha visto la realizzazione di diversi altri attentati a sedi e a beni dell’allora Democrazia Cristiana in Sicilia. Un’azione minatoria: la collocazione di una bomba da mortaio nei giardini di Boboli, annessi a palazzo Pitti, a Firenze, in epoca prossima al 5 ottobre 1992. Ben quindici gravi delitti furono progettati, fra i quali, gli attentati a Calogero Mannino e a Claudio Martelli, l’eliminazione del capitano Ultimo, il rapimento di uno dei figli di Giulio Andreotti, l’omicidio di Alfonso Giordano o di Pietro Grasso, l’idea di disseminare di siringhe infette la costa della Romagna e quella di avvelenare, qua e là, qualche pacco di merendine nei supermercati. Una linea progettuale che ha trovato – secondo la pronuncia della sentenza della Corte d’Assise di Reggio Calabria del 21 luglio 2020, non ancora definitiva, la partecipazione di esponenti di dell’ndrangheta e di Giuseppe Graviano nel duplice omicidio dei militari dell’Arma dei Carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo, commesso il sull’autostrada SA-RC, all’altezza di Scilla, il 18.1.1994, e nei tentati omicidi dei militari dell’Arma Vincenzo Pasqua e Silvio Ricciardo (commesso in Reggio Calabria, loc. Saracinello nella notte tra il giorno 1 e il giorno 2 dicembre 1993) e Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra (perpetrato in Reggio Calabria, loc. Saracinello il 1.2.1994).
[20] Gaspare Spatuzza iniziò a collaborare con la giustizia nel 2008. La sua ascesa criminale compie un salto netto nel 1995, quando venne formalmente affiliato a cosa nostra e nominato reggente del mandamento di Brancaccio. Nel 1997 venne tratto in arresto.
[21] Uno dei fedelissimi del capo mandamento di Brancaccio (i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano), Fabio Tranchina iniziò a collaborare con la giustizia nell’aprile del 2011.
[22] Con l’ausilio di Salvatore Candura, di Francesco Andriotta e di Calogero Pulci. Invero, le prime smentite al racconto di Scarantino arrivarono dalle dichiarazioni di Cancemi, Di Matteo e La Barbera. Scarantino mostrò oscillazioni nelle sue dichiarazioni, ritrattando a più riprese. Nella sentenza della Corte d’assise di Caltanissetta del 1999, che ha definito in primo grado il processo Borsellino ter, si è sostenuto che non si doveva «tenere alcun conto delle dichiarazioni di Scarantino per la valutazione delle responsabilità sulla strage di via D’Amelio». Un depistaggio che ha portato alla contestazione del delitto di calunnia nei confronti di Scarantino, Candura, Andriotta e Pulci, a seguito, soprattutto, della collaborazione di Spatuzza, e alla loro condanna con sentenza di primo grado del 20 aprile 2017 della Corte d’Assise di Caltanissetta (la cui motivazione è stata depositata il 20 aprile 2018). La Corte ha definito il depistaggio della strage di via Mariano d’Amelio come «uno dei più gravi della storia giudiziaria italiana». La pronuncia di condanna è stata confermata il 19 novembre 2019 dalla Corte d’Assise d’appello di Caltanissetta (che ha ritenuto prescritto il delitto di calunnia nei confronti di Scarantino). Sono stati accusati di aver contribuito al depistaggio anche appartenenti alle forze dell’ordine e il relativo processo è in fase di celebrazione.
[23] L’esplosivo Semtex-H è stato utilizzato anche nella strage del treno rapido 904 del 23 dicembre 1984.
[24] I membri del commando operativo si incontrarono a casa di Priolo immediatamente dopo l’evento per brindare al buon esito della strage.
[25] Il processo c.d. via d’Amelio ter è scaturito dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Giovan Battista Ferrante, Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Calogero Ganci, Antonino Galliano e Francesco Paolo Anzelmo.
[26] Sentenza della 6 sezione della Corte di Cassazione del 17-18 gennaio 2003, n. 00085/03, R. G. 37455/2002, pres. Pasquale Trojano, la cui motivazione è stata depositata il 7 febbraio 2003, che ha definito il processo via d’Amelio ter, con rinvio a seguito di annullamento di alcune pronunce di condanna.
[27] La sentenza, già citata, è stata emessa dalla prima sezione penale, presieduta dal dottor Edoardo Fazzioli, giudice estensore Grazia Corradini, n. 1157/08, 42990/08, la cui motivazione è stata depositata in cancelleria il 18 novembre 2008.
[28] A partire dai mesi di febbraio-marzo ‘92, mentre era in fase di preparazione la strage di Capaci, si instaurò una complessa trattativa tra Paolo Bellini e Antonino Gioè, avente a oggetto il recupero di quadri rubati di notevole valore, a fronte di benefici per detenuti, indicati in esponenti del gotha di Cosa Nostra, nel quadro di riflessioni relative al compimento di attentati al patrimonio artistico del Paese, tra i quali, sempre ricorrente, la Torre di Pisa. Quei progetti vennero veicolati a rappresentanti dello Stato. Secondo il racconto di Giovanni Brusca, fu Bellini a mettere sotto gli occhi dei mafiosi i beni del patrimonio artistico nazionale e a discutere con loro delle conseguenze di possibili attentati. Il collaborante ha puntualizzato di aver parlato dei suggerimenti di Bellini con Leoluca Bagarella e di aver sempre tenuto informato Riina, sottolineando che elaborarono l’idea istillata da Bellini. Sul versante istituzionale, è emerso che, inizialmente, Bellini si rapportò con il maresciallo dei carabinieri del Reparto Tutela Patrimonio Artistico, Roberto Tempesta, e, successivamente, con il generale Mario Mori.
[29] A p. 782 e ss. della sentenza del 20 aprile 2017 della Corte d’assise di Caltanissetta viene riportato un paragrafo inerente ad alcuni punti oscuri e a incongruenze nella strage di via Mariano d’Amelio.
[30] Si è provato, attraverso i processi celebrati, che «erano in corso trattative con canali istituzionali che si erano condensate nell’arcinoto ‘papello’, che era una sorta di cahier de doléances che costituiva per Riina la base per una seria trattativa con lo Stato». Così si sono espressi i giudici nella motivazione della sentenza, divenuta definitiva, della Corte d’assise d’appello di Caltanissetta, depositata il 23 giugno 2001. Nel medesimo provvedimento si legge: «…l’escalation di violenza che contrassegnò la stagione delle stragi era finalizzata ad indurre alla trattativa lo Stato, ovvero a consentire un ricambio sul piano politico che, attraverso nuovi rapporti, potesse assicurare come per il passato le necessarie complicità di cui Cosa Nostra aveva beneficiato». E, ancora: «Ritornando al tema delle trattative va rammentato che Cancemi, in sede di riesame ha fatto riferimento ai contatti avuti da Riina con gli onorevoli Dell’Utri e Berlusconi …; contatti che, a suo dire avevano lo scopo di ottenere provvedimenti legislativi favorevoli all’organizzazione: annullare la legge sui pentiti, abolire l’ergastolo, eliminare la normativa sul sequestro dei beni o di affievolirne le conseguenze. Anche Brusca ha riferito di una trattativa, a cavallo delle stragi, condotta da Salvatore Riina per ottenere benefici in tema di revisione dei processi, di sequestri di beni, di collaboratori di giustizia, nonché del progetto di attentato nei confronti del giudice Grasso, essendosi inaridite le trattative in corso, dopo la strage di Via D’Amelio. Dell’esistenza di contatti tra Salvatore Riina con rappresentati istituzionali si trae conferma, come ha ricordato lo stesso Brusca, dalle dichiarazioni rese dal gen. Mori e dal magg. De Donno …Tali trattative, nel cui ambito si inserì anche Vito Ciancimino, sfociate nel notissimo “papello”, vennero intraprese nel quadro di una serie di iniziative del ROS, volte alla cattura di Riina e Provenzano. I vertici di Cosa Nostra, subito dopo la strage di Capaci, avevano ricevuto un segnale istituzionale che, nella loro prospettiva, convalidava la bontà delle prospettive che si aprivano in concomitanza con le stragi, tant’è che Riina aveva cercato di rivitalizzare, dopo la strage di Via D’Amelio, la trattativa con il progetto di attentato nei confronti del dr. Pietro Grasso. Difatti, la trattativa condotta dagli ufficiali del ROS con Ciancimino si era bloccata, avendo quest’ultimo chiesto una pausa di riflessione». Nella sentenza della Corte d’Assise di Firenze per le stragi del ’93, n. 3 del 6 giugno 1998 si legge: «… l’iniziativa del ROS (perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vice-comandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratteristiche per apparire una ‘trattativa’; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Sotto questi profili non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di ‘trattativa’, ‘dialogo’ ha espressamente parlato il cap. De Donno (il gen. Mori, più attento alle parole, ha quasi sempre evitato questi due termini), ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulata (prendere tempo, costringere il Ciancimino a scoprirsi o per altro) di contattare i vertici di ‘cosa nostra’ per capire cosa volessero (in cambio della cessazione delle stragi). Qui la logica s’impone con tanta evidenza che non ha bisogno di essere spiegata. Quanto agli effetti che ebbe sui capi mafiosi soccorrono, assolutamente logiche, tempestive e congruenti, le dichiarazioni di Brusca. Su questo personaggio si potrà dire, ancora una volta, quello che si vuole, ma il tempo (luglio-agosto 1996) in cui parlò, per la prima volta, di questa vicenda, spazza ogni dubbio sulla assoluta veridicità di quanto ebbe a raccontare. Allora, infatti, l’esistenza di questa trattativa era sconosciuta a tutti i protagonisti di questo processo; Brusca non poteva ‘prenderla’ da nessuno (lo stesso generale Mori ha dichiarato di averla raccontata al Pubblico Ministero di Firenze nel mese di agosto del 1997)». Dunque, si è provato, attraverso i processi celebrati, che sono esistite delle trattative, che i vertici dell’organizzazione mafiosa ricevettero un segnale istituzionale idoneo, nella loro prospettiva, a suonare come una conferma che la loro attività stragista fosse adatta a raggiungere l’obiettivo di aprire canali relazionali, capaci di individuare nuovi referenti istituzionali.
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